Un tempo senza storia, di Adriano Prosperi

di Nicola D’Elia
Recensione al volume di Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi, Torino 2021, prezzo 13 euro.
Il libro di Adriano Prosperi muove da una riflessione formulata da Eric J. Hobsbawm nelle pagine de Il secolo breve, secondo cui a partire dalla fine del Novecento si è avviato un processo che può essere definito di “distruzione del passato”. Si tratta del sempre più marcato offuscamento della coscienza e della conoscenza storica che si è venuto registrando – in Europa e soprattutto in Italia – tra le nuove generazioni, nel mondo della scuola e in quello della politica. Un simile fenomeno è stato drammaticamente certificato dall’esito di una indagine demoscopica condotta da Eurispes nel 2020: il 15,6% per cento della popolazione italiana pensa che la Shoah non sia mai esistita, contro il 2,7% del 2004. Prosperi cerca di individuare i fattori che hanno determinato l’eclissi della dimensione storica e del rapporto con il passato nell’esperienza delle generazioni più giovani.
C’è stato, in primo luogo, il mutamento epocale prodotto dalla rivoluzione informatica, che ha allontanato enormemente il presente dal recente passato. Ciò ha avuto come conseguenza l’oblio della memoria collettiva, che veniva tradizionalmente trasmessa per via generazionale nell’ambiente familiare e nei luoghi abituali della vita quotidiana. Tale patrimonio di esperienze e di ricordi, spiega Prosperi, ha lasciato il posto a “un consumo personale di racconti, immagini e informazioni fornite di continuo e in grande abbondanza dai mezzi di comunicazione di massa, disponibile sempre e dovunque a richiesta come le merci dei supermercati”.
Un altro fattore cruciale è stato la progressiva marginalizzazione dell’insegnamento della storia nelle scuole, accompagnata alla dequalificazione del ruolo del docente. Prosperi ne attribuisce le cause a un insieme di scelte politiche e di orientamenti culturali che sarebbero riconducibili all’avanzata del neoliberismo e del populismo seguita alla svolta politica che si era determinata nei primi anni Novanta del Novecento, con la crisi irreversibile dei partiti tradizionali su cui si era fondato il sistema politico italiano dopo la Liberazione.
Tutto ciò, prosegue Prosperi, avrebbe alimentato la diffusa tendenza del nostro tempo a far cadere nell’oblio gravi eventi del recente passato a cui sono legate pesanti responsabilità collettive e con cui non si vuole pertanto fare i conti. Al riguardo, egli cita soprattutto il caso dell’atteggiamento della popolazione italiana verso gli Ebrei durante la persecuzione antisemita; un atteggiamento che andò dall’indifferenza per le sorti delle vittime fino alla attiva collaborazione con i carnefici. Si tratta di una realtà che sarebbe stata a lungo mascherata dalla leggenda degli “Italiani brava gente” prima che questa venisse demolita da una serie di studi recenti e dalle testimonianze dei sopravvissuti all’Olocausto. A tal proposito, Prosperi si sofferma su quella di Liliana Segre, la quale ha ricordato che gli Italiani erano stati i più feroci tra gli aguzzini che la caricarono insieme a suo padre sul treno per Auschwitz.
Rievocare simili esperienze mette in crisi le fondamenta della memoria nazionale. Infatti – osserva Prosperi richiamandosi alla lezione di Ernest Renan – l’oblio costituisce un fattore essenziale nella creazione di una nazione. La ricerca storica, con il riportare alla luce fatti spiacevoli, rappresenta invece un pericolo per la costruzione di una identità nazionale. La nazione ha bisogno di una memoria condivisa, la quale procede però in una direzione opposta alla storia in quanto cancella il passato e fonda sull’oblio un patrimonio comune ma artificioso, fittizio.
Tuttavia, Prosperi aggiunge che non è solo la memoria a favorire l’oblio. Anche la ricerca storica, operando una selezione degli eventi passati da ricordare, diventa nello stesso tempo una macchina per dimenticare. E proprio il suo libro ce ne offre alcuni esempi significativi, indulgendo alla pericolosa tendenza alla “distruzione del passato” che intenderebbe contrastare.
Nel denunciare l’atteggiamento degli Italiani all’epoca della persecuzione antiebraica, Prosperi lascia cadere nell’oblio il fatto che più dell’80% degli Ebrei che vivevano in Italia riuscì a sopravvivere. Ciò fu possibile – come è stato ampiamente documentato nel libro di Liliana Picciotto, Salvarsi – grazie anche (se non soprattutto) all’aiuto ricevuto da cittadini italiani e alla protezione assicurata dalla Chiesa e dalla rete delle organizzazioni cattoliche che Prosperi vede unilateralmente come centri di incubazione dell’odio antiebraico.
Nel libro si legge inoltre che “i popoli europei – salvati dall’Armata Rossa, grazie all’eroismo patriottico dimostrato dai soldati nella difesa di Stalingrado […] – aspettavano pace, libertà e riscatto sociale. Si videro offerti guerra fredda e incubo nucleare”. Anche questa affermazione cancella alcuni fatti storici importanti: i popoli dell’Europa occidentale furono salvati dagli eserciti anglo-americani e nel Dopoguerra, pur in un contesto condizionato dalla contrapposizione tra i blocchi, riuscirono a vivere in condizioni di pace, di libertà e – con l’ausilio di un efficace sistema di welfare – di relativo benessere. Sono aspetti che non è lecito dimenticare.
In conclusione, il libro di Prosperi propone una erudita riflessione sul rapporto tra memoria e storia, ma non sembra offrire soluzioni al preoccupante offuscarsi della conoscenza del passato che caratterizza il nostro tempo; una tendenza da cui esso stesso non è immune.
faccio fatica a credere che un grande storico come Prosperi abbia fatto tali affermazioni che, effettivamente, non sono assolutamente condivisibili così come dice il commentatore. Il mio modesto parere è che i giovani non conoscono la storia esattamente per gli sessi motivi per cui non conoscono l’italiano, la matematica, la fisica e la geografia: perchè la scuola italiana è ormai pessima , con buona pace dei ministri (dagli anni ’70 in poi, non mi fermerei un po pretestuosamente agli anno ’90) e delle famiglie che non vedono l’importanza di solide basi generaliste nelle scuole inferiori e superiori. La seconda causa dell’ignoranza storica è quel conflitto innominabile tra stati europei, che ha impedito di realizzare un libro di storia condivisa e comune: ogni popolo è sempre convinto di essere più innocente degli altri e di aver contribuito più degli altri al progresso delle scienze e delle arti (basti vedere il conflitto tra le dizioni “invasioni barbariche” e “migrazioni nordiche” e la definizione di Aufklarung come “Illuminismo tedesco”). La terza causa è che esiste (a mio avviso) un sovraesposizione verso la memoria di determinati temi così che i giovani – di scarse basi e sempre impazienti e facili alla noia- “staccano l’audio” e si rifiutano di ascoltare, con effetto controproducente da quello sperato.