Un reporter di nome Kapuściński
di Francesco Matteo Cataluccio
Ryszard Kapuściński era un uomo molto inquieto: non riusciva a star mai fermo. Dopo pochi giorni che era nella sua bella casa zeppa di libri, sulla ulica Prokuratorska, a Varsavia, trovava sempre un pretesto per ripartire. Ho sempre pensato che sua moglie, la dottoressa Alicja, fosse una santa. Le prime volte che lo cercai per telefono mi rispondeva che non sapeva bene dove fosse suo marito e che, forse, lo avrebbe sentito tra un paio di settimane. Si perdeva nel mondo. Del resto, per scrivere aveva bisogno del movimento. E anche del fiato sul collo dei redattori. I capitoli dei suoi libri sembrano puntate di reportage, scritte come se fosse all’ultimo momento (anche quando sono il frutto di lunghe e meticolose rielaborazioni). Sono passati ormai parecchi anni dal quel freddo 23 gennaio del 2007, quando arrivò la notizia che Kapuściński non era sopravvissuto a un’operazione chirurgica non più rimandabile. Mi manca molto l’amico e, allo stesso tempo, sento una grande amarezza per dover esser stato, purtroppo tra i non molti, a doverlo difendere dal fango che, passati appena poco tempo dalla sua scomparsa, gli ha gettato addosso il suo ex allievo e collega Artur Domosławski, con la biografia Kapuściński non-fiction (2010). Quelle che vengono presentate come “scottanti rivelazioni” sul rapporto di collaborazione che il giovane Kapuściński avrebbe intrattenuto con la polizia politica polacca erano stati spesso argomento di nostre chiacchierate: egli non nascondeva il fatto che quando per la prima volta, alla fine degli anni Cinquanta, dovette recarsi all’estero come giornalista, il regime polacco lo costrinse (come faceva con tutti coloro che avevano bisogno di un passaporto) a firmare un impegno a tenerlo regolarmente informato sull’attività dei suoi colleghi occidentali e a far da tramite con gruppi rivoluzionari filosovietici. Lui, come quasi tutti i suoi furbi concittadini, accettò le condizioni e poi trasmise notizie del tutto irrilevanti e, quanto ai “contatti”, si regolò secondo sua coscienza (del resto, i servizi segreti statunitensi, che lo tenevano anch’essi d’occhio, non rilevarono mai nel suo agire nulla di compromettente, tanto che infatti il visto di ingresso negli Stati Uniti non gli venne mai negato). E l’altra accusa (oltre a una quantità di malignità e pettegolezzi del tutto inutili) che gli fa Domosławski, di “essersi inventato molte cose venendo meno all’etica del giornalista”, si sgretola da sola quando si leggono i suoi libri e si comprende bene che Kapuściński era prima di tutto un grande scrittore. E’ davvero ingiusto “fare la morale” (per lo più quando non si può più difendere da solo!) a un uomo che è stato uno degli ultimi maestri di tolleranza, rispetto e curiosità verso l’Altro. Kapuściński odiava il cinismo: era un malinconico, e un po’ amaro, ottimista che cercava, con appassionata curiosità, la verità che sta in ogni essere umano. Per questo era facile essergli amico, anche se il suo carattere non era certo facile: spesso si spazientiva e si irritava, anche senza motivo.
Conobbi personalmente Kapuściński agli inizi degli anni Novanta quando iniziai a pubblicare, presso la casa editrice Feltrinelli, dove lavoravo come redattore, i suoi libri (agli inizi mi guardarono con scetticismo perché un suo libro, Il Negus. Splendori e miserie di un autocrate, del 1978, era stato pubblicato, traducendolo dall’inglese e non dall’originale polacco, proprio dalla Feltrinelli, nel 1983, con esiti commerciali disastrosi). Lo invitammo nel 1994 a Milano a presentare l’edizione italiana di Imperium (che, secondo me, è il suo libro più bello), uscito quasi in contemporanea con l’originale polacco. Kapuściński conquistò tutti con la sua simpatia e modestia. E noi due ci riconoscemmo come appartenenti al bizzarro “club degli amanti di Witold Gombrowicz” e passammo diverse ore, in un caffè di Corso Como, a scambiarci le rispettive impressioni sulle implicazioni filosofiche di Cosmo, un romanzo che può aiutare a comprendere lo stile di pensiero e di scrittura di Kapuściński (“Gombrowicz”, mi disse, lasciandomi sulle prime un po’ interdetto, “è stato uno dei miei maestri”). Di fronte al numeroso pubblico accorso a sentirlo, e convinto di trovarsi di fronte una sorta di sosia polacco di Bruce Chatwin, Kapuściński esordì affermando di amare molto l’Italia perché era il primo paese occidentale che aveva visitato, alla fine degli anni Cinquanta, in viaggio verso la sua prima missione nel Terzo mondo. Ricordava l’impressione che gli fece vedere di notte, dall’aereo, Roma là sotto tutta illuminata, come un immenso lago di candeline: “Mi sembrava di essere in un film di Fellini”, disse ridendo. Inaugurammo in quell’occasione una tradizione che avremmo rispettato ogni volta che venne in Italia. Era convinto che da noi ci fossero le migliori, e più a buon mercato, camice del mondo. Così, da quella volta, le nostre discussioni di lavoro avvennero entrando e uscendo dai negozi dove lui, mai contento, esaminava decine di camice. Ne comprava, alla fine, una, ma in quindici anni l’ho visto venire sempre con la stessa (polacca). Una volta mi disse di rimpiangere di non poter indossare quei bei variopinti camicioni africani che usava laggiù. Francamente non sono mai riuscito ad immaginarlo vestito così.
Kapuściński si considerava un po’ il patriarca dei corrispondenti di tutto il mondo. Molti suoi famosi colleghi erano ormai scomparsi. A volte diceva di sentirsi un sopravvissuto di un mestiere che è profondamente cambiato nella pratica e anche nell’etica professionale. Ma riconosceva con sicurezza coloro che gli erano simili e soffriva molto quando qualcuno di loro (come la Politovskaja) veniva colpito. I sempre più numerosi attacchi, nel mondo, alla libertà di stampa e ai giornalisti, lo preoccupavano. Si dava da fare per portare la sua testimonianza e suoi consigli ovunque ci fossero dei giovani che volevano intraprendere questo difficile mestiere. Gli piaceva molto discutere di politica. Di qualunque nazione si parlasse, dimostrava una vastità di letture e un aggiornamento sorprendenti. Di ogni paese africano, ad esempio, era in grado di indicare capi di stato e ministri come se stesse parlando dei giocatori della squadra di calcio della propria città. Da giovane aveva creduto sinceramente nella spinta rivoluzionaria dei movimenti anticolonialisti. Forse, nel Terzo mondo, aveva intravisto una sorta di risarcimento ideale alle delusioni della Polonia dopo le speranze dell’ottobre 1956. Capivo questo meccanismo, perché funzionò anche per mio padre (comunista e docente di Storia contemporanea all’Università di Genova) che vide, negli stessi anni, nei movimenti di liberazione dell’Africa e dell’Asia, una speranza che le proprie utopie politiche avessero un senso meno squallido e oppressivo della realtà del cosiddetto “socialismo reale”. Una volta quindi li feci incontrare a pranzo, a Firenze: si stettero simpatici e, parlandosi in un improbabile spagnolo, sembravano due reduci delle Brigate Internazionali. Per entrambi la delusione per le sorti progressive del cosiddetto Terzo Mondo era stata dolorosa: cacciate le potenze coloniali, quasi ovunque si erano instaurate dittature feroci e corrotte. Kapuściński le descrive bene nei suoi libri. Eppure una certa sensibilità (e un po’ di scettica simpatia) per le rivoluzioni gli era in fondo rimasta (soprattutto per quelle dell’America Latina). Grazie a questa “empatia”, durante la rivoluzione iraniana, riuscì, girando e parlando con la gente, a descrivere ciò che i suoi colleghi non vedevano. In Shah-in-Shah (1982), Kapuściński mostrò per primo che la Storia laggiù stava prendendo un passo nuovo, e drammatico, nella fusione tra religione e politica. Nello stile di questo libro, come degli altri, c’è un aspetto che salta agli occhi: Kapuściński non giudicava mai. In privato, sì, e anche nei dibattiti (seppure con più cautela), ma nei suoi scritti si nota un’astensione dal giudizio degna di un autore classico (Tito Livio o Machiavelli). Quando glielo feci notare, la cosa gli fece grandissimo piacere: quello era il mondo al quale, come molti altri intellettuali polacchi, guardava come punto di riferimento culturale ed etico. Mi disse più volte che questo era sempre stato il suo imperativo professionale: non bisognava influenzare il giudizio del lettore con le proprie opinioni. A degli studenti di una scuola italiana disse: “il giornalismo non è un mezzo di propaganda politica, ma informazione e ricerca della verità”.
FOTOGRAFIEIl “cimelio” più caro che conservo del mio amico Kapuściński sta appeso sulla parete dinanzi al tavolo in cucina (in modo da poterlo vedere ogni mattina): è una piccola fotografia quasi tutta buia, con al centro un gruppo di cinque egiziani seduti in preghiera su un tappeto, rischiarato dal raggio di sole che cala su di loro da una finestra del tetto. La scrittura e la fotografia, mi disse una volta, passeggiando per il grande parco vicino a casa sua, erano per lui “l’illuminazione momentanea di persone e fatti immersi altrimenti nel buio del mondo”. Kapuściński teneva molto alla sua professione di fotografo. Era iscritto all’Associazione dei Fotografi Polacchi e non perdeva occasione di ribadirlo. Ma in tutti gli anni che l’ho frequentato non gli ho mai visto scattare una foto, né estrarre la macchina dal brutto borsello che si portava sempre dietro. E’ come se la fotografia appartenesse al suo passato, quando faceva il giornalista e raccontava “in presa diretta” la realtà. Negli ultimi anni invece si considerava uno scrittore, con un approccio più distaccato, come si conviene a un’artista, o, meglio, a un poeta (una volta, mi disse che sulla sua tomba avrebbe voluto ci fosse scritto solo: “poeta”).
Nel 2002, quando già dirigevo la Bruno Mondadori, mi propose di pubblicare, in coedizione polacca, un suo bellissimo album di foto, intitolato Dall’Africa. Ne scrissi una breve introduzione che gli piacque molto e così mi nominò suo “assistente fotografico”. Organizzammo, nella primavera di quell’anno, una mostra (curata da Iza Wojciechowska) di alcune di quelle foto alla Casa delle letterature, a Roma, nell’ambito della prima edizione del festival “Fotografia” di Marco Delogu. La mostra fu poi invitata a Buenos Aires per un’esposizione alla Fondazione Proa, in occasione di un corso che Kapuściński doveva tenere a dei giovani gornalisti sudamericani. Mi fece invitare come, appunto, assistente e trascorremmo assieme laggiù due intense settimane.
Il primo posto dove andammo, appena sbarcati nella capitale argentina, nell’ottobre 2002, fu il Cimitero monumentale della Recoleta: cappelle su cappelle e alberi secolari con lo sfondo dei grattaceli dei ricchi. Il vento portava l’odore e la brezza del mare. Deponemmo i fiori sulla tomba di Adolfo Bioy Casares (1914-1999). La cappella della sua famiglia trasudava da tutti i marmi opulenza e importanza. Notammo con sorpresa che a lui era dedicata solo una piccola targhetta di bronzo che lo faceva sfigurare accanto a tutti quegli avvocati, ingegneri e personalità pubbliche di spicco. Poi Kapuściński mi portò in pellegrinaggio in Plaza de Mayo. Dal 1977, ogni giovedì, una rappresentanza delle madri dei trentamila desaparicidos marciava in silenzio, dietro uno striscione, con i fazzoletti in capo, attorno all’obelisco al centro della piazza. Quelle donne giravano e giravano. Un po‘ più indietro le seguivano, a due a due, a braccetto, le madri che avevano ceduto e accettato dal governo un indennizzo per i figli scomparsi. Kapuściński, con le lacrime agli occhi, mi citò Edoardo Galeano: „Quelle donne sono il coro greco della nostra tragedia“.
Nel quartiere Palermo facemmo il nostro „tour Borges“. La prima tappa fu al Bistrot „El Preferido“ (all’angolo tra Calle Serrano e Avenida Borges) costituito da due negozi comunicanti: una pizzicheria con gli scaffali di legno incorniciati come certi mobili da farmacia di un tempo e una piccola trattoria con enormi boccioni di sottaceti succulenti affiancati da un muro di bottiglie dalle etichette più strane e piccoli tavolini con tovaglie rosse a scacchi. Le vie di Palermo vecchia sono punteggiate di case a un piano, massimo due, di grande bellezza: sembra davvero di trovarsi in una città del sud Italia di inizio secolo, con un Liberty a volte vistoso, altre sobrio e più elegante. Durante tutta la giornata, ciascuno di noi annotò delle cose sulla propria Moleskine. La sera ci rifugiammo, anche per sfuggire a un violento temporale, in un ristorante all’angolo tra l’Avenida Perù e l’Avenida Belgrado, ai piedi di un palazzo del 1914, molto alto e sormontato da una pretenziosa cupola e curiose decorazioni: al primo piano giganti/cariatidi assai lugubri e, all’ultimo, quattro strane aquile simili a draghi, protesi verso la strada. Davanti ad una profumata bistecca grande come un libro, Kapuściński mi ingiunse di leggergli cosa avevo scritto. Poi mi lesse i suoi appunti: sembrava fossimo stati in posti del tutto diversi. Lui si era soffermato su una bottiglia rotta vicino a una pozzanghera, un cagnetto che camminava sghimbescio, una finestra blu alla quale si affacciava una signorina con strani guanti rosa… Non si fidava del suo intuito immediato: per questo raccoglieva di tutto, con gran rispetto per le persone e le cose. Dava loro un senso conferendogli la dignità di fatti. Io invece avevo annotato i palazzi importanti, le cose che raccontava la gente, le “questioni morali”…
Kapuściński tenne le sue “lezioni di giornalismo” nella sede della Fondazione Proa, nel popolare e pittoresco quartiere della Boca (essendo ambedue molto appassionati di calcio, andammo anche a vedere una partita dei “Boca Juniors”, la mitica squadra di Maradona), davanti a trenta giovani, venuti da tutto il continente, che lo ascoltavano rapiti e lo chiamavano Maestro. Fu bravissimo a spiegare, con passione e realismo, cosa significasse fare il giornalista in realtà come quelle dell’America Latina e di come loro avessero una grande responsabilità verso i propri popoli. Ma ho sempre sospettato, e in Argentina ne ebbi la conferma, che, al di là della grande passione che dimostrava, Kapuściński considerasse in fondo il giornalismo come un mestiere, da far bene, con onestà e passione, ma pur sempre un lavoro che ti dà da vivere. Una volta mi confessò, passeggiando per la caotica Avenida Corrientes, che avrebbe voluto fare il poeta o lo scrittore di aforismi: colui che in poche parole descrive un mondo. Col passare del tempo, infatti, sempre meno credeva nella linearità e nelle sequenza continua, veloce ed evidente, dei fatti. Aveva bisogno di soffermarsi e ragionare sul frammento. Avendo lavorato per molti anni come corrispondente di un’agenzia di stampa, si era abituato alla precisione della notizia breve ed esaustiva. Ma si era poi accorto che troppo materiale gli rimaneva nei taccuini. Per questo iniziò a scrivere i suoi libri -Il Negus; La prima guerra del football; Imperium; Shah-in-Shah, Ebano- che sono un genere letterario tutto particolare. In essi si fondono il suo interesse per la storia (amava ricordare di aver studiato storia a Varsavia alla scuola del grande studioso del feudalesimo Witold Kula) e la passione per la fotografia. La realtà che racconta sono tante inquadrature, incorniciate da osservazioni e notizie raccolte di prima mano o frutto di numerose letture. Ordinava il caos dei fatti in una sequenza di illuminanti scatti, spesso apparentemente secondari. Dopo l’Argentina, ci rivedemmo qualche volta a Varsavia: nell’occasione di un’intervista che gli feci per “Repubblica” mi invitò a cena, con molto orgoglio (“Vedi ora siamo un paese normale!”), nel più costoso ristorante italiano, appena aperto: gli spiegai che faceva schifo, dimostrando una spietatezza, della quale mi pentii subito, perché lo intristii come quando a un bambino si dice che il suo disegno è brutto. Oppure ci incontravamo, sempre di fretta (un pranzetto e rapido un giro di camicie), approfittando di ogni occasione che, con sempre maggiore frequenza, Kapuściński veniva in Italia per ricevere un premio, tenere una conferenza o, cosa che più gli piaceva, a far lezione a qualche classe scolastica. Ogni volta diceva che era l’ultima volta, che era stanco e che voleva starsene tranquiillo a casa a scrivere, ma lo diceva con un tono poco credibile e un mezzo sorriso che faceva intuire quanto tutto quel frenetico viaggere e vedere gente gli desse gioia (anche a costo di rimetterci la salute). Quando lo incontrai l’ultima volta, a Roma, nell’ ottobre del 2006, approfittando di una mattinata libera da impegni, andammo a visitare una mostra di disegni di Paul Klee. In una stanza completamente buia, attraversata da un fascio di luce che illuminava un quadro con un buffo ometto in equilibrio, con una lunga asta, su un filo teso tra due leggere impalcature di travi, si incantò a guardare e disse a bassa voce: “Muoio”. Alle mie proteste e alle solite affermazioni di circostanza (come: “ma stai benissimo!), rispose: “Non ci pensiamo più”. Dopo la sua morte scoprii, con grande e amara sorpresa, che aveva una figlia. Non me ne aveva mai parlato. Eppure non sarebbero mancate le occasioni per farlo, come quando mia figlia, che lo chiamava zio, gli rovesciò gli spaghetti sulla camicia o, alcuni anni dopo, si precipitò a casa mia, direttamente dall’aeroporto, con un regalo per il mio secondo figlio appena nato. Questa misteriosa figlia si chiamava Zofia. Ma quasi nessuno a Varsavia lo sapeva. Nell’autunno del 2008, alla Galleria Kordegarda, si inaugurò una mostra di collage di un’artista canadese di origine polacca: Rene Maisner. Intervistata dalla giornalista Lidia Ostałowska di “Gazeta Wyborcia” (il maggiore quotidiano polacco, dove aveva scritto anche Kapuściński) la Maisner si rifiutò di rispondere alla domanda chi fosse suo padre. Alla fine, chiese che non si accennasse in nessun caso a suo padre, recentemente scomparso, perché era Ryszard Kapuściński. Due anni dopo, Zofia/Rene bussò alla mia porta, con una troupe della televisione, per farmi un’intervista su Kapuściński per un documentario. Si sedette sulla punta del divano, si tolse gli occhiali che le nascondevano il bel volto e, senza guardarmi in faccia, mi chiese al microfono: “Chi era mio padre?”.
MAL D’AFRICA
“Nel 1924, il fotografo polacco Kazimierz Ostoja Zagórski (1880-1941) si trasferì in Congo. Viaggiò in Ciad, Ruanda, Kenya e fece più di 500 foto che trasformò, per campare, in cartoline per i turisti. Alcune di queste immagini furono mostrate all’Esposizione coloniale di Parigi del 1937 e poterono essere ammirate da un più vasto pubblico (oggi sono disponibili in un libro: “L’Afrique qui disparait”, trad. it. “Africa perduta. Dalla collezione di Pierre Loos”, Skira, 2001). Zagórski era affascinato dai corpi degli africani: le sue foto si concentrano su bellissime donne e fieri uomini colti in pose statuarie, come certe figure scolpite nell’ebano che in quegli anni iniziavano a circolare nei mercati europei.
Nel 1957, un altro polacco, Ryszard Kapuscinski, giovane poeta laureato in storia, con un po’ di pratica in un giornale sospettato di poca ortodossia politica, riuscì a coronorare il suo sogno di fuga e di avventura, di impegno morale e di curiosità umana, grazie all’incarico di corrispondente in Africa dell’agenzia statale di stampa PAP. Fu l’inizio di una grande passione: “Volevo vedere l’Africa, ne ammiravo la bellezza: sono stato costretto a lavorarci per avere la possibilità di conoscerla. Non potevo pagarmi viaggi in Africa”. Per i successivi quarant’anni approfittò di ogni occasione per tornarvi. Ma il suo atteggiamento era diverso, al di là della fascinazione per gli abitanti del continente, da quello di Zagórski. Non lo interessavano le belle immagini di un’Africa “esotica e primitiva”, ma: notizie, denunce, volti, racconti di lotte per la libertà e l’indipendenza. Per far questo dovette immergersi totalmente nella realtà africana, convinto che “è sbagliato scrivere di qualcuno senza averne condiviso almeno un po’ la vita”. Un corrispondente diverso dalla maggioranza degli inviati europei e americani. Diverso nello sguardo, nel cuore, nella testa, nel portafoglio: “Viaggiavo continuamente. Evitavo i percorsi ufficiali, i palazzi, i personaggi importanti e la grande politica. Preferivo chiedere occasionali passaggi, sui camion e percorrere il deserto con i nomadi, farmi ospitare dai contadini della savana tropicale. La vita di questa gente è una fatica continua, una tribolazione sopportata con incredibile serenità e resistenza”. (Heban, 1998; trad. it. Ebano, Feltrinelli, 2000, p. 7) Un lavoro condotto in condizioni di grande disagio che lo rendevano “abbastanza simile a un africano”: “Ero uno schiavo, schiavo del mio lavoro ossessivo. Ero il corrispondente di un’agenzia di stampa e dovevo coprire tutto il continente. E in quegli anni lontani comunicare dall’Africa con il mondo non era certamente facile. Pochi telefoni, niente televisione, pochissimi giornali, comunicazioni impossibili. Io vivevo in Africa ed avere notizie per me era difficilissimo. Stavo in Tanzania e non riuscivo a sapere cosa stesse accadendo in Algeria. […] L’unico contatto con il mondo era il telex e solo in qualche paese avevo la fortuna di trovare un telex funzionante. […] I problemi erano senza fine, spesso insolubili. Era un inferno”. (“Il cinico non è adatto a questo mestiere”, a cura di M. Nadotti, edizioni e/o, 2000, p. 80)
Kapuscinski aveva un’idea molto chiara del mestiere dell’inviato in Africa: “Dev’essere testimone di tutti i principali movimenti su un’estensione di trenta milioni di chilometri quadrati (la superficie dell’Africa), sapere quel che accade contemporaneamente nei cinquanta stati del continente, quello che è avvenuto in passato e quello che può accadere in futuro, conoscere almeno metà delle duemila tribù in cui si divide la popolazione africana, ricordare centinaia di particolari pratici… Ci vogliono anche una buona resistenza psichica e un fisico di ferro. […] Non potrà mai fare il corrispondente chi ha paura della mosca tse-tse, del cobra nero, degli elefanti, dei cannibali, di avvelenarsi con l’acqua dei fiumi e dei ruscelli, di mangiare un tortino di formiche arrosto, chi trema al solo pensiero dell’ameba e delle malattie veneree, o dell’idea di essere derubato e picchiato, chi mette da parte i dollari per farsi una casetta in patria, chi non sa dormire in una capanna africana e chi disprezza la gente di cui scrive”. (Wojna futbolowa, 1978; trad. it. La prima guerra del football e altre guerre di poveri, Serra e Riva, 1990, pp. 164-165).
Conoscendo Kapuscinski di persona non veniva mai in mente che quell’ uomo piccolo, agitatissimo, dall’andatura un po’ sbilenca e lo sguardo dolce potesse incarnare quella sorta di eroe cinematografico votato al sacrificio che ci viene descritto. Eppure soltanto laggiù si sentiva completamente a casa sua. I passaggi da Varsavia sono soltanto delle soste per riprender fiato, riorganizzare le idee e gli appunti, scrivere i suoi libri. Dopo un po’, le betulle gli fanno venire il nervoso e deve ripartire a giro per il mondo, e preferibilmente per le foreste equatoriali e i deserti di sabbia. Ma, oltre a questo aspetto, che potrebbe essere catalogato come “mal d’Africa”, c’ è una forte spinta etica che motiva fortemente il lavoro di Kapuscinski facendoglielo considerare quasi una sorta di missione politico-sociale: “Scrivo anche per alcune ragioni etiche: intanto perché i poveri di solito sono silenziosi. La mia intenzione è quella di mostrare a tutti noi europei che l’Europa, o meglio una sua parte, non è la sola cosa esistente al mondo. Che l’Europa è circondata da un immenso e crescente numero di culture, società, religioni e civiltà differenti. […] Ho tentato di far capire attraverso i miei scritti che viviamo un momento di grande rivoluzione: prima era possibile vivere separati, senza conoscere nulla gli uni degli altri e da un paese all’altro. Non abbiamo strumenti né esperienza per pensare su scala globale, per capire cosa essa significhi, per accorgerci di come le altre parti del pianeta ci influenzino e come noi influenziamo loro. […] Dopo il crollo del muro di Berlino è come se l’Africa avesse cessato di esistere. Nessuno oggi ha più interesse all’Africa. Si tratta di un continente ai margini del pianeta. Negli ultimi dieci anni sono crollati i sostegni internazionali: l’aiuto allo sviluppo è precipitato sotto l’1 %. Questo vuol dire che ogni africano riceve meno di due dollari al mese. Cioè niente”. (“Il cinico non è adatto a questo mestiere”, cit., p. 76).
L’Africa, si accorse quasi subito Kapuscinski, è un continente troppo grande per poterlo descrivere. Non c’erano allora e non c’è oggi una sola Africa. Ci sono diverse Afriche, almeno quattro: l’ Africa del Nord, una striscia immensa che si estende dalle coste mediterranee fino al Sahara, l’Africa occidentale, l’Africa orientale e infine l’Africa australe. Ognuna di queste regioni africane è profondamente differente da ciascuna delle altre. E’ un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo: “E’ solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamiamo Africa. A parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste”.
Raccontare l’Africa, al di là del reportage giornalistico, divenne per Kapuscinski uno degli impegni principali degli ultimi anni. Così pubblicò prima, nel 1998, il libro “Ebano” -con l’avvertenza: “Questo libro non parla dell’Africa, ma di alcune persone che vi abitano e che vi ho incontrato, del tempo che abbiamo trascorso insieme”- e poi, quando, nel 2000, gli chiesero di pubblicare alcune delle centinaia di fotografie che aveva scattato, dette alle stampe un album, di sole fotografie africane, di sole figure umane, intitolandolo “Dall’Africa”, a c. di F. M. Cataluccio, Bruno Mondadori, 2000). Nell’introduzione all’album, Kapuscinki spiegava con passione che cosa significasse per lui la fotografia: un’alternativa alla scrittura, un altro modo, diverso, di raccontare la gente e il mondo. Identica era però la sua filosofia: “Il mio modo di fare fotografia è molto istintivo. […] Di solito ignoriamo le fotografie. Ne vediamo decine al giorno. E non ci rendiamo conto che per capire le fotografie e la letteratura è necessaria una partecipazione attiva degli altri. Non si riesce a capire la fotografia se non ci si pone come creatori attivi”. (Il cinico non è adatto a questo mestiere, cit., p. 99).
La galleria di volti africani -sorridenti, diffidenti, ostili, sorpresi- che scorrono in questo album testimoniano immediatamente della povertà materiale, ma anche della ricchezza di vite che possono, e devono, essere comprese soltanto “dall’interno”.
Non sono cartoline: sono una testimonianza di amore e rispetto.
I RIVOLUZIONARI
Tra le accuse che il suo collega e allievo Artur Domosławski muove a Ryszard Kapuściński, nella controversa e discutibile biografia intitolata Kapuściński non fiction (edizioni Świat Książki 2010, edita in italiano da Fazi), c’è quella di essere stato un accanito terzomondista e di aver giustificato la violenza dei rivoluzionari di ispirazione marxista. Indubbiamente Kapuściński aveva creduto sinceramente, non se ne vergognava e non aveva nessuna difficoltà ad ammetterlo, nella spinta rivoluzionaria dei movimenti anticolonialisti. Forse nel Terzo mondo aveva trovato, agli inizi degli anni sessanta, una sorta di risarcimento ideale alle delusioni della Polonia dopo le speranze dell’ottobre 1956. Nei rivoluzionari dell’Africa e dell’America Latina intravedeva una speranza che le proprie utopie politiche avessero un senso meno squallido e oppressivo della realtà del cosiddetto “socialismo reale”. Del resto, aveva scelto di fare il giornalista spinto da motivazioni ideologiche, oltre che umane: “Ho cominciato a scrivere, da ragazzo, come poeta. Dopo la seconda guerra mondiale, nell’Europa distrutta, si sviluppò in me la passione di descrivere la nostra povera esistenza umana. (…) E inoltre mi interessava molto vedere il mondo. (…) Quando ho iniziato a scrivere su questi paesi, dove la maggioranza della popolazione vive in povertà, mi sono reso conto che quello era l’argomento a cui volevo dedicarmi. Scrivevo tuttavia anche per alcune ragioni etiche: intanto perché i poveri di solito sono silenziosi”. Per poter far questo volle andare “sul campo”, perchè, come amava ripetere: “E’ sbagliato scrivere di qualcuno senza averne condiviso almeno un po’ la vita”.
Così, dal 1958 al 1967 Kapuściński lavorò in Africa e dall’autunno del 1967 al 1972 viaggiò in America Latina. I suoi reportage, che mescolano liberamente storie africane e vicende sudamericane, sono stati da lui raccolti in due volumi: Cristo con il fucile in spalla (1975; Feltrinelli 2011) e La prima guerra del football e altre guerre di poveri (1978; Feltrinelli 2002). In ambedue, significativamente, si ritrova il reportage Victoriano Gomez davanti alle telecamere (1970), da molti, compreso lo stesso Kapuściński, considerato il suo capolavoro. In poche efficacissime pagine infatti egli riuscì a raccontare l’esecuzione del partigiano salvadoregno Gomez, in uno stadio affollato e distratto, sotto gli occhi impietosi della televisione e di sua madre. La triste solitudine di quell’uomo (che è la stessa evocata dal poeta polacco Czesław Miłosz, nella celebre poesia Campo dei fiori, dove si riflette sulla solitudine di coloro che muoiono ammazzati) e la paradossalità di quella situazione sono rese con spietata asciuttezza e un’ indignazione profonda, seppur appena accennata.
Ma, nel volume Cristo con il fucile in spalla (Feltrinelli, Milano 2011 c’è un reportage, sempre del 1970, assai più emblematico: Perché è morto Karl von Spreti (già uscito in italiano come libro a sé: Il Margine, Trento 2010). E’ il bellissimo e drammatico racconto del rapimento e l’assassinio dell’Ambasciatore della Repubblica Federale Tedesca, in Guatemala, ad opera di un gruppo di guerriglieri. Kapuściński ricostruisce molto accuratamente il contesto nel quale avvenne il delitto e cerca di mostrare le ragioni di coloro che portano fino in fondo un assassinio, che i loro avversari non hanno nessun interesse a fermare: “Non si può porre sullo stesso piatto della bilancia il terrore bestiale delle organizzazioni paramilitari Mano e Noa e la lotta di uomini che devono uccidere per poter vivere, e che devono sequestrare persone perché solo in questo modo possono tentare di salvare decine di detenuti da una morte fra le torture. Sono due situazioni moralmente incomparabili”. E ciò sarebbe sufficiente per dire che egli stava dalla parte dei violenti e mettere in secondo piano la forza della sua denuncia e, soprattutto, la qualità letteraria dei suoi reportage?
L’ISLAMNon è possibile comprendere il ruolo dell’islam nel mondo moderno senza capire che cosa è stata la rivoluzione iraniana. Tanti politici e intellettuali (basti pensare ai vergognosi reportage di Michel Foucault, nei quali si inneggiava alla “giusta violenza della Rivoluzione”) presero, trentacinque anni fa, un abbaglio, arrivando a giustificare l’assalto all’Ambasciata americana a Teheran, che mostrò al mondo la pericolosità del fanatismo e creò un precedente pericoloso nei rapporti internazionali. Si può invece sostenere che i tragici avvenimenti degli ultimi anni abbiano in parte la loro radice proprio nel 1979, quando Komeini (che morirà nel 1989) conquistò il potere. Egli infatti, oltre alla cacciata dello Scià, perseguiva un altro scopo, che esulava dai confini dell’Iran. Si reputava, come un profeta, chiamato da Dio alla missione di fare della repubblica iraniana un potente centro religioso, destinato a porsi come guida di tutto il mondo islamico. I mussulmani del mondo intero sarebbero dovuti diventare, sul modello dell’Iran, una potenza religiosa apportatrice di civiltà, in grado di scatenare, in nome dell’islam, la rivoluzione a livello mondiale e liberare le masse degli oppressi, in particolar modo nel Terzo Mondo.
Ryszard Kapuscinski seguì in diretta quegli avvenimenti e, a cose concluse, in un ormai deserto albergo di Teheran (“Avevo l’impressione di attraversare un grande palcoscenico dopo l’uscita di scena dell’ultimo attore”), scrisse un libro,
Shah-in Shah che, oltre al valore letterario, rimane esemplare per la freddezza dello sguardo, per l’ostinata volontà di capire senza pregiudizi, per la lucidità dell’analisi. Nell’edizione italiana (Feltrinelli) chiude il volume (pubblicato per la prima volta in polacco nel 1982) una sorta di breve bilancio, scritto nel 1997 per l’edizione tedesca, che si raccomanda per le riflessioni che contiene. Spesso i giornalisti si compiacciono delle loro doti di scrittori e indugiano sulle belle immagini ad effetto che si fermano però sulla superficie degli avvenimenti. Kapuscinski, invece, che grande scrittore lo è veramente (basta leggersi il racconto della polizia che spara sui manifestanti e un uomo sulla seggiola a rotelle, degno del cinema di Ejzenstejn), si fissa sui particolari come un fotografo (questa è stata infatti la sua prima professione): “Attraverso un dettaglio si può far vedere tutto: l’universo in una goccia d’acqua. Il particolare ci è più accessibile, più familiare del generale”. Ma ciò che lo anima è l’interesse dell’antropologo e del militante della causa della libertà. La scrittura è per lui un mezzo per comprendere meglio la realtà politica e sociale, la possibilità di far capire con chiarezza problemi e situazioni ingarbugliate.
La rivoluzione che cacciò la dittatura dello Scià fu ispirata da un nazionalismo radicale. L’Iran era uno dei pochi paesi del terzo Mondo a non esser mai stato una colonia e la popolazione vedeva Reza Pahlavi come “un servo degli Stati Uniti”. Fu una rivoluzione della tradizione contro la modernità: “Un popolo oppresso da un despota e ridotto al ruolo di oggetto cerca un rifugio, un luogo dove nascondersi, barricarsi, essere se stesso. E’ l’unico modo per mantenere la propria identità e perfino la propria normalità. Non potendo emigrare nello spazio, il popolo intraprende una migrazione nel tempo e fa ritorno a un passato che, paragonato ai dolori e ai pericoli della realtà circostante, gli appare come un paradiso perduto. Trova rifugio in usanze antiche: tanto antiche, quindi tanto sacre, che il potere non osa combatterle. Accade così che sotto il tappo della dittatura, contro e malgrado il suo volere, si assiste a una progressiva rinascita di costumi, simboli e credenze di una volta, caricati di un significato nuovo e provocatorio”. Fu una rivoluzione disarmata nella quale, quasi subito, ebbe il sopravvento il fondamentalismo. Facendo un bilancio della storia iraniana degli ultimi venti anni, Kapuscinski nota (anche se i fatti recenti sembrano smentirlo) che i fondamentalisti islamici non hanno come bersaglio principale del loro odio né l’Europa né gli Stati Uniti, ma “si accaniscono con la ferocia e la brutalità più atroci proprio contro i regimi dei loro stessi paesi (come accade, ad esempio, in Algeria o in Egitto) e contro l’intellighenzia liberale islamica, i cui rappresentanti vengono considerati dei traditori, dei miscredenti, che offendono le leggi del Corano e vanno quindi puniti, anzi, eliminati”.
Una delle lezioni che, secondo Kapuscinski si possono trarre dagli esiti della rivoluzione iraniana (ormai in “fase calante”), è che non sia possibile democratizzare uno stato multietnico (dove accanto all’etnia maggioritaria, i farsi, vivono curdi, baluci, tagiki, arabi), ma che prima o poi si ricade in una violenta dittatura: “In uno stato multietnico in cui un gruppo sia predominante, qualsiasi accenno di soluzioni democratiche evoca lo spettro della disintegrazione dello stato”.
Purtroppo quella rivoluzione non è andata come auspicava un buffo venditore di tappeti, un po’ filosofo, a conclusione del libro: “La Persia ha dato al mondo non cose materiali, ma spirituali: la poesia, la miniatura e il tappeto; il paese ce la farà a sopravvivere, la bellezza è indistruttibile”. Anche se, ad esempio, il cinema che viene prodotto, tra mille difficoltà, in quel paese, farebbe sospettare che avesse un po’ ragione.
