Psichiatria e letteratura: la peste di Atene in Lucrezio

peste in atene

di Arianna Sacerdoti

Gli studi sul trauma degli psichiatri hanno interessato anche fenomeni quali terremoti ed eruzioni, eventi catastrofici che hanno lasciato segni nelle popolazioni interessate. Ogni letteratura è anche la storia di tali fenomeni, perché riguarda l‘uomo; la letteratura latina non è da meno. Seneca il filosofo (I sec. d. C.) nelle “Questioni naturali” tratta del terremoto in Campania nel I sec. (62 d. C.); Stazio dell’eruzione del Vesuvio del 79 d. C. La dinamica di omissione o confessione dell’evento traumatico è come una danza reticente o aperta, a seconda del rapporto dello scrittore con la mediazione letteraria e con l’evento stesso.

In questo contributo non ripercorro i sentieri da me già percorsi su Stazio e Seneca, ma mi volgo a Lucrezio. La premessa doverosa è che il trauma, individuale o collettivo, ha effetti negli uomini di disorientamento e pensieri ossessivi, tracce a lungo termine di perdita di un equilibrio. Gli psichiatri e gli psicoanalisti si sono concentrati prevalentemente sugli abusi e traumi infantili, ma anche l’età adulta e gli eventi collettivi sono codificati.

Lucrezio è un grande autore. Vissuto nel I sec. a. C., nel suo De rerum natura tratta della teoria degli atomi e di altri aspetti piccoli e grandi della cosmologia, della materia, dell’uomo e dell’universo. Nel sesto libro la peste di Atene del V sec., già narrata da Tucidide in Grecia, trova spazio. I versi interessati, che riportiamo, sono i vv. 1230-1286:

 

Illud in his rebus miserandum magnopere unum

Aerumnabile erat, quod ubi se quisque uidebat

Implicitum morbo, morti damnatus ut esset,

Deficiens animo maesto cum corde iacebat,

Funera respectans animam amittebat ibidem.

Quippe etenim nullo cessabant tempore apisci

Ex aliis alios auidi contagia morbi,

Lanigeras tamquam pecudes et bucera saecla.

Idque uel in primis cumulabat funere funus.

Nam quicumque suos fugitabant uisere ad aegros,

Vitai nimium cupidos mortisque timentis

Poenibat paulo post turpi morte malaque,

Desertos, opis expertis, incuria mactans.

Qui fuerant autem praesto, contagibus ibant

Atque labore, pudor quem tum cogebat obire

Blandaque lassorum uox mixta uoce querelae.

Optimus hoc leti genus ergo quisque subibat.

Praeterea iam pastor et armentarius omnis

Et robustus item curui moderator aratri

Languebat, penitusque casa contrusa iacebant

Corpora paupertate et morbo dedita morti.

Exanimis pueris super exanimata parentum

Corpora nonnumquam posses retroque uidere

Matribus et patribus natos super edere uitam.

Nec minimam partem ex agris is maeror in urbem

Confluxit, languens quem contulit agricolarum

Copia conueniens ex omni morbida parte.

Omnia complebant loca tectaque; quo magis aestu

Confertos ita aceruatim mors accumulabat.

Multa siti prostrata uiam per proque uoluta

Corpora silanos ad aquarum strata iacebant

Interclusa anima nimia ab dulcedine aquarum,

Multaque per populi passim loca prompta uiasque

Languida semanimo cum corpore membra uideres

Horrida paedore et pannis cooperta perire

Corporis inluuie, pelli super ossibus una,

Vlceribus taetris prope iam sordeque sepulta.

Omnia denique sancta deum delubra replerat

Corporibus mors exanimis onerataque passim

Cuncta cadaueribus caelestum templa manebant,

Hospitibus loca quae complerant aedituentes.

Nec iam religio diuum nec numina magni

Pendebantur enim: praesens dolor exsuperabat.

Nec mos ille sepulturae remanebat in urbe,

Quo prius hic populus semper consuerat humari;

Perturbatus enim totus trepidabat, et unus

Quisque suum pro re <compostum> maestus humabat.

Multaque <res> subita et paupertas horrida suasit.

Namque suos consanguineos aliena rogorum

Insuper exstructa ingenti clamore locabant

Subdebantque faces, multo cum sanguine saepe

Rixantes potius quam corpora desererentur;

Inque aliis alium, populum sepelire suorum

Certantes: lacrimis lassi luctuque redibant;

Inde bonam partem in lectum maerore dabantur.

Nec poterat quisquam reperiri, quem neque morbus

Nec mors nec luctus temptaret tempore tali.

 

La traduzione italiana di Guido Milanese per la Mondadori (ed. del 1992) recita così:

 

“In questo, grandemente degna di pietà era una cosa

carica di dolore: quando una persona si avvedeva

di esser presa dentro la malattia, come fosse un condannato a morte,

si perdeva d’animo, stava lì, con il suo cuore dolente,

vedeva dinanzi il suo funerale, e moriva lì dov’era

– perché in nessun istante smettevano di comunicarsi

uno con l’altro il contagio dell’avido morbo,

come lanigere pecore o mandrie di buoi.

Ma questo più di tutto cumulava morte su morte:

tutti quei che evitavano di visitare i parenti malati,

perché erano troppo avidi di vivere, paurosi di morte,

poco dopo li puniva – con morte infame e crudele, abbandonati

da tutti, senza un aiuto – la mancanza di cure, ammazzandoli.

D’altra parte, quelli ch’erano stati altruisti, se ne andavano

per contagio e fatica, che pudore e voce flebile dei malati

unita a voce di pianto li costringeva ad affrontare.

Tutti i migliori affrontavano dunque questo tipo di morte.

(…) uno sull’altro, facendo come una gara per seppellire la folla

dei propri parenti; e se ne tornavano sfatti di lacrime e lutto;

e quasi tutti si gettavano sul letto per l’angoscia:

non si trovava nessuno che malattia

o morte o lutto non assalisse in simile momento.

Poi tutti i pastori e i bovari, e anche

il forte contadino che guida l’aratro ricurvo

erano senza forze; giacevano in fondo a capanne i corpi

ammassati, per miseria e per morbo consegnati alla morte.

Sopra bimbi senza vita si vedevano a vote i corpi

senza vita dei genitori, e inversamente

sopra madri e padri rendevano l’anima i figli.

E in parte non piccola dalla campagna giungeva

dentro la città quel dolore, che portava con sé la massa

già contagiata dei contadini, raccogliendosi qui da ogni parte.

Riempivano tutti i luoghi e le case: e ancor di più, per il calore,

così accatastati a mucchi morte li accumulava.

Molti corpi sfiniti dalla sete lungo la via rotolati

presso bocche d’acqua giacevano stesi – il soffio

della vita l’aveva soffocato il piacere eccessivo dato dall’acqua.

Molte dovunque, in spazi pubblici, nelle strade,

si vedevano membra senza forza, nel loro corpo vivo a metà,

lerci disgustosamente, coperti di stracci, mentre morivano

nel luridume del corpo: solo pelle era sopra le ossa,

già come seppellite tra terribili piaghe e sporcizia.

Tutti i luoghi sacri agli dei infine aveva riempito la morte di corpi

senza vita, e ovunque i templi dei numi celesti rimanevano tutti

carichi di cadaveri; i custodi avevano affollato questi posti di ospiti.

Né ormai religione divina o numi importavano più

molto, infatti: aveva più forza il dolore presente.

Non restava nella città il rito di sepoltura che prima

quel popolo aveva per tradizione seguito nei funerali;

era sconvolto tutto nel terrore, e ognuno,

composti come poteva, seppelliva piangendo i suoi cari.

Molte cose terribili urgenza e miseria li spinsero a fare:

i propri congiunti deponevano tra lacrime e urla

in cima a roghi costrutti per altri,

e gettavano sotto le fiaccole; spesso pieni di sangue

lottavano, piuttosto che quei corpi fossero abbandonati.

I segni del trauma, per come codificati in letteratura psichiatrica, interessano già i primi versi:

“In questo, grandemente degna di pietà era una cosa

carica di dolore: quando una persona si avvedeva

di esser presa dentro la malattia, come fosse un condannato a morte,

si perdeva d’animo, stava lì, con il suo cuore dolente,

vedeva dinanzi il suo funerale, e moriva lì dov’era”.

 

Com’è evidente, gli effetti della catastrofe (la malattia che dilaga) riguardano la sfera dell’animo: chi è toccato dalla peste si perde d’animo, immagina la morte, e di fatto muore dentro. Sono tutti effetti del cosiddetto PTSD, post-traumatic stress disorder, che riverbera i suoi effetti nella sfera individuale.

Il passo che abbiamo presentato continua con una dettagliata descrizione del dolore. Se “Né ormai religione divina o numi importavano più / molto, infatti: aveva più forza il dolore presente”, è evidente che la sfera trascendente non presenta più un orizzonte di salvezza e recupero, tradendo la sua natura e abbandonando gli uomini a sé stessi. In realtà gli dei, afferma Lucrezio, non cambiano di funzione, ma sono gli uomini che non confidano più nel piano divino e sono pervasi dalle proprie angosce.

Se continuiamo a leggere,

“Non restava nella città il rito di sepoltura che prima

quel popolo aveva per tradizione seguito nei funerali;

era sconvolto tutto nel terrore, e ognuno,

composti come poteva, seppelliva piangendo i suoi cari.”

L’inversione dell’ordine consueto è un altro fenomeno tipico del PTSD, che sconvolge i ritmi abituali e prevede uno sconvolgimento. Il terrore la fa da padrone.

La peste rientra dunque, come abbiamo visto, nel range dei fenomeni che generano effetti negativi negli individui.

Lo splendore dei versi di Lucrezio e delle ricerche interdisciplinari trova risonanza negli interessi di studiosi e insegnanti di scuola, sempre più attratti dalle intersezioni e dai registri di senso profondo e ampio, con finestre sugli spazi aperti dei territori interdisciplinari.

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