Su Bucha

di Helena Janeczek

L’importanza di quel che è successo a Bucha sta nel fatto che si è potuto verificare così limpidamente: tramite i giornalisti sul campo, tramite le testimonianze locali, tramite gli strumenti dell’investigazione digitale come l’articolo che analizza le immagini satellitari pubblicato dal New York Times o il lavoro indipendente di Bellingcat sul fact-checking e la cosiddetta OSINT, open source intelligence.

Ritirandosi i russi non hanno potuto (o voluto) cancellare le tracce (le prove) dei crimini commessi. Il luogo e la dimensione del massacro sono di una misura alla quale non si applica ancora la frase, aihmé, di Stalin: “un morto è una tragedia, un milione sono una statistica”.

Per questo sono rimasta veramente colpita (eufemismo) di trovare così tanti che preferivano condividere delle versioni dubitabonde (eufemismo) anziché fidarsi, per dire, di Francesca Mannocchi che non solo descriveva con precisione quello che ha visto con i propri occhi, ma che finora ha coperto con lo stesso rigore anche l’Iraq, lo Yemen, la Libia e altri scenari dove le responsabilità degli USA, della UE, dei sauditi e altre petromonarchie di cui siamo ancora “amici” e alleati le conosciamo.
Valerio Nicolosi, che è stato diverse volte a Gaza, si è sentito dare del “servo dell’Occidente”. In sospetto di non essere affidabile è finito pure Nello Scavo che è sotto scorta perché ha svelato le trattative del nostro governo con il trafficante Bija e i loschi traffici di certi politici maltesi non troppo lontani dalle vicende dell’assassinio di Daphne Caruana Galizia. E che oltretutto è l’inviato di “Avvenire”, un giornale vicino alla posizione non certo militarista di Bergoglio.

Queste posizioni, va detto, non le ho trovate espresse da chi ha un impegno costante, da attivist@, contro la guerra, come Cecilia Strada o Luca Casarini, anche loro tristemente presi a bersaglio (o da “fuoco incrociato”?).

E noto, sempre con tristezza, di aver adoperato un linguaggio metaforico di natura militarista perché la divisione nemico/amico questo comporta.

Potremmo veramente discutere di tutto, anche di una declinazione dell’idea di pacifismo che pensa sia giusto rinunciare all’autodeterminazione e all’autodifesa pur di non subire una violenza dove tutti, anche i civili, sono il nemico, e il nemico è “nazista”. Dunque da distruggere come il male assoluto, e poi “rieducare”. Questo è ciò che emerge dall’obbrobrioso articolo del sito di Novosti, agenzia stampa russa governativa, che il Post ha ripreso con l’opportuno commento che si tratterebbe di una posizione estrema. Ma Putin e tante voci a lui vicine, nonché i dissidenti russi, confermano che sia sostanzialmente questa la visione dominante. È della messa in pratica di questa visione che, nel loro “piccolo”, parlano i fatti di Bucha.

Una delle chiavi di lettura – per me – più illuminanti della guerra imperialista russa non è un’analogia storica, ma il paragone con la violenza di genere tracciato da Adriano Sofri.
Gli ucraini non sono infatti pensati come un “diverso” così alieno e nemico da poter essere solo eliminato o espulso con la violenza (come gli ebrei, i musulmani, i tutsi ecc,). No, l’Ucraina ha dimenticato a chi appartiene e ha dimenticato di essere abitata da russi (o “piccoli russi”). Si è lasciata corrompere da un desiderio di indipendenza, ha voluto “andare con un altro” (l’Europa, la Nato, l’Occidente), da quest’altro si è fatta sedurre e plagiare.
E quindi deve tornare da chi ne è padrone legittimo, con le buone o con le cattive. Più patriarcale di così, si muore e, infatti, si sta morendo – e stuprando.

Nella storia delle donne, molte madri hanno dovuto insegnare alle figlie di non difendersi in caso di stupro per non rischiare magari anche la vita. Molte donne hanno cercato di consigliare alle altre come sopportare, possibilmente minimizzando il danno, un marito o padre padrone violento pur di sopravvivere.

Non è solo questo, lo so, c’è una questione di odio, distruzione, imbarbarimento specifico alle guerre del nostro tempo che spaventa e sgomenta anche me. Ma credo che non sia scorretto dire che una certa idea odierna di pacifismo implichi la richiesta di ritornare a quella pratica della sottomissione pur di salvare – o sperare di salvare – la nuda vita.
E io questa richiesta non mi sento di farla né per il bene di un altro né per il mio, il nostro. In più mi addolora terribilmente credere che ormai sia comunque troppo tardi, come esemplificano i fatti di Bucha.

Vorrei continuare a discutere con tutte e tutti coloro che sono stati quelli con cui in passato ho condiviso tante idee e un po’ di impegno (poco da parte mia).
Ma c’è un limite che non è solo una certa simpatia per Putin e tutto quello che rappresenta e ha fatto sin da quando è andato al potere, io che Politkovskaja l’ho letta sin dal primo tentativo di ucciderla, quando era in corso la guerra in Cecenia.
È lo slittamento verso quell’attitudine al negazionismo così tipico del nostro tempo pieno di notizie false, manipolate o incomplete da cui si possa scegliere la verità (o “post-verità”) che più conferma le nostre convinzioni. E purtroppo lo vedo anche in persone che non sono filo-putiniane.

Nel corso della pandemia questa postura mentale ha creato dei danni, a volte mortali, a dei soggetti fragili, ha messo a dura prova il personale medico e sanitario, ma sopratutto ha fatto sì che quelle persone convinte di una “verità alternativa” si ammalassero perdendo la vita o la salute. Per questo, nonché per l’aggressività bellica delle campagne contro i no-vax, non li ho mai considerato dei “nemici”.

Negare, minimizzare, discreditare dei crimini di guerra (ben che vada) contro dei civili che sono cittadini di un paese che si comporta in modo “sbagliato”, per me invece va di un passo oltre. Va verso un territorio di complicità implicita con l’aggressore, oltre a erodere sempre di più l’idea che una società democratica possa non essere votata alla “scomparsa dei fatti” (paradossalmente un titolo di Travaglio) che minaccia di svuotarla sino a farci arrivare dove non vorremmo arrivare.

Foto di una donna morta a Irpin, mentre scappava con le chiavi di casa che contengono un portachiavi con la bandiera dell’Unione Europea. L’autore è Ignatius Ivlev-Yorke.

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