Sperticati post elogiativi

di Gianluca Falanga

Stamattina sono un po’ inquieto e i pensieri sono un po’ farraginosi. Ho letto nei giorni scorsi, intrecciati a quelli per la giornata della memoria, molti post celebrativi di Stalingrado, con tanti commenti di esaltazione dell’Armata rossa, alla quale dovremmo imperitura riconoscenza per averci ridato la libertà. Ora, io sinceramente mi domando che bisogno si possa avvertire oggi di sperticarsi in commoventi elogi dell’esercito di Stalin, tranne l’esigenza di ripristinare narrazioni utili solo a coltivare stupidi manicheismi e conservare le trincee ideologiche del passato, che sarebbe invece tanto urgente abbandonare. Per non passare per incallito revisionista (poche palle: ogni storico deve esserlo) nè per insensibile riduzionista dell’immenso sacrificio di sangue dei popoli dell’Urss, me ne sono andato a passeggiare e riflettere al Memoriale ai caduti dell’Armata rossa al Treptower Park.

È la terza volta che ci torno nel giro di pochi mesi, mentre chiudevo il lavoro al mio prossimo libro, che presto potrò annunciare, ma questa è un’altra storia. Dire che è un posto che impressiona è cosa banale. Ciò che mi tocca e mi agita è comprendere la causa dell’impressione, che probabilmente è o la stessa (o parente stretta) dell’irritazione che mi suscitano le esaltazioni di Stalingrado (e aggiungo che mi irritano meno se son fatte dai russi piuttosto che da “occidentali”). Sfilando lungo la fila dei sacrofagi di calcare con le citazioni di Stalin a caratteri dorati (restaurate nel 2004 dal governo tedesco per ben 11 milioni di euro!) e le raffigurazioni delle tappe salienti della Grande guerra patriottica (perché questo era in primis la guerra sovietica, non la crociata per liberare i popoli d’Europa dal nazifascismo), mi sforzo di aprirmi uno spiraglio nella muraglia colossale della Grande narrazione mitologica per sentire le voci di quelle 7000 anime sepolte sotto i miei passi. Mi piacerebbe tanto sfiorarle ad una ad una, parlarci, chiedere della loro vita e dei pensieri che facevano andando a morire. Ma non ci riesco, quelle anime sono irraggiungibili, prigioniere della sacralità del sacrificio, ammutolite dalla morte eroica.

Sotto la statua gigantesca del milite col bambino in braccio e la spada calata (quella forgiata a Magnitogorsk e levata a Stalingrado) ci si sente piccoli e insignificanti, ma non c’è calore umano in quel gesto, perché non riesco a dimenticare che quell’esercito che liberò Auschwitz era l’esercito di uno Stato che aveva (nell’esatto momento in cui vi apriva i cancelli) oltre 2,5 milioni e mezzo di internati nei campi del Gulag, un esercito che non giungeva a portare libertà ma nuova oppressione e schiavitù ai popoli dell’est europeo. Si fa torto allora alla memoria di quei soldati, a quelle donne e a quegli uomini che vogliamo immaginare coraggiosi, a ricordarsi che nel 1945 Stalin ripartì da lì dove l’aggressione nazista del giugno 1941 era intervenuta a interrompere una strategia politica che considerava formidabile e vincente, l’intesa con Hitler per spartirsi l’Europa? Si possono dimenticare le parate congiunte dell’Armata rossa con la Wehrmacht nella Polonia annientata e smembrata, le commissioni miste Nkvd-Gestapo per concordare le epurazioni da operare, i verbali preparatori dei patti Hitler-Stalin, come quello del giugno 1939, quando il Dr. Schnurre del ministero degli Esteri nazista manifestò a colloquio con il segretario dell’Ambasciata sovietica a Berlino Astachov: “Pur con tutte le differenze di visione del mondo, c’è qualcosa di comune nell’ideologia della Germania, dell’Italia e dell’Unione sovietica: la contrapposizione alle democrazie capitaliste. (…) Perciò ci sembrerebbe paradosssle, se l’Urss volesse schierarsi ora dalla parte delle democrazie occidentali.” Astrachov convenne e propose che si passasse ai fatti, cominciando a parlare concretamente di sfere di influenza da spartirsi. Dopo la guerra, dopo essere riuscito a ottenere mezza Europa, molto di più di quanto avrebbe potuto ottenere dall’intesa con Hitler, Stalin ancora la rimpiangeva con la figlia Svetlana: “Insieme ai tedeschi saremmo stati invincibili.”

Mi viene freddo solo a pensare che cosa pote a accadere se Hitler si fosse convinto a proseguire con Stalin. E allora perdonatemi questo sfogo: un antifascista (di oggi, s’intende, per i contemporanei è un po’ diverso) che si esalta per l’Armata rossa staliniana, nei cui ranghi dominava lo sprezzo per la vita umana, specchio di quell’epoca e di quel regime, mi risulta sospetto. Perché per me la quintessenza dell’antifascismo è l’amore per gli esseri umani, il rispetto del valore di ogni singola vita umana, che è il contrario della primitiva sopraffazione del fascismo. Sul terreno della storia e della memoria il solco non è fra fascisti e antifascisti, nemmeno fra comunisti e anticomunisti, ma fra chi la storia la usa per fare politica e quindi non può permettersi di rivederne i canoni e chi invece vuole interrogarla continuamente ed è disposto ad accoglierne i messaggi, anche i più difficili da digerire.

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