Segnalazioni editoriali
di Gian Ruggero Manzoni
SEGNALAZIONI EDITORIALI. SEMPRE RINGRAZIANDO GLI AUTORI, GLI EDITORI E GLI ARTISTI CHE MI OMAGGIANO COI LORO LIBRI, COI LORO CATALOGHI E LE LORO RIVISTE …
- LA MERAVIGLIOSA AVVENTURA DI CABEZA DE VACA di Haniel Long, Edizioni Adelphi
Haniel Long (1888 – 1956) è stato un poeta e scrittore statunitense non molto conosciuto in Italia. Nato in Birmania da genitori missionari metodisti, si trasferì negli Stati Uniti all’età di tre anni. Studiò a Exeter e ad Harvard, dove iniziò a mostrare il suo talento come scrittore “di versi romantici e di prosa vigorosa”. Divenne successivamente insegnante d’inglese al Carnegie Institute of Technology, poi conosciuta come Carnegie Mellon University. Inoltre, per sostenere la sua famiglia, scrisse per varie riviste e giornali. Nel 1932 parecchi scrittori, compreso Long, si unirono per formare le Writers’ Editions, allo scopo di aiutarsi vicendevolmente nella pubblicazione delle proprie opere. Esse editarono 17 libri, fino a che la scarsità di carta, durante la Seconda Guerra Mondiale, le forzò a cessare le pubblicazioni. Probabilmente la migliore opera della sua produzione fu il poema, tradotto in molte lingue, sulla storia del viaggio di Álvar Núñez Cabeza de Vaca del 1528, avventura svoltasi attraverso il continente nordamericano. Il poema aveva come titolo originario: The Marvelous Adventure of Cabeza de Vaca.
Nel 1528 un pugno di spagnoli, scampati a una spedizione nata sotto una cattiva stella, approdò sul litorale del Golfo del Messico. Uno di questi era Álvar Núñez Cabeza de Vaca. Nel corso di otto anni egli guidò, attraverso l’intero continente americano, due compagni e un moro in una marcia estenuante che si rivelò, alla fine, un viaggio salvifico. Poveri scheletri sopravvissuti a stento, privi di ogni cosa, costretti a spogliarsi di tutti i princìpi che vestono l’anima di un europeo – in primo luogo della certezza che l’uomo accresce la sua forza solo con la daga e il pugnale –, si lasciarono alle spalle tutto ciò che avevano imparato al di là dell’oceano e, piegati da una natura inclemente, umiliati dagli indios che li usarono come bestie da soma, pervennero infine alla più totale nudità interiore, così che scoprirono in loro un nuovo potere, quella forza che è al fondo di ognuno di noi e che “ci spinge a dare, pur non avendo più niente da dare”, in modo che divennero, per i nativi, “coloro che guariscono”. Di tutto questo Cabeza de Vaca scrisse in una relazione al suo re. Un piccolo libro magnifico … un libro da non perdere. Libro che avrei voluto scrivere io.
- LUDWIG di Andrea Leone, Fallone Editore
Andrea Leone (Milano) ha scritto “L’Ordine” (2006, Premio San Pellegrino opera prima), “Il suicidio di Holly Parker” (2008), “Lezioni di crudeltà” (2010), “La sposa barocca” (2010), “Scena della violenza” (2013), “Kleist” (2014), “Hohenstaufen” (2016, Premio Internazionale di Letteratura Città di Como).
Egli è autore che, con attenzione e tangenza poetica, sto seguendo da tempo … quindi non perdendo tempo.
Dalla nota editoriale: “Andrea Leone riconferma la sua poetica antimoderna, il suo stilema teso verso l’epos di una grandezza ormai inusitata, verso un Tu superiore e divino, che è la furia della forma, l’enciclopedia del sangue. In Ludwig immagini e costruzioni sintattiche alludono al poema sinfonico, pur oltrepassandolo; vi è l’esecuzione di un atto magico e irripetibile, che svia e snerva ogni ipotesi d’interpretazione parziale, disintegrando ancora una volta il verso comune che nella poesia postmoderna scorre come un vagito adulante: la sommossa linguistica sta nella sequenza anacoretica che non conosce pause e che, senza dimenticare la storicità del linguaggio, si ricompone nello spazio di una lingua sacrale e determinante, e nel ritmo serrato e anaforico che impone la potenza del melos contro il logos”. Di Andrea così hanno scritto altri: “Puntare alto, senza compromessi. C’è chi lo fa, nella narrativa. Parliamo di un libro come ‘Kleist’ di Andrea Leone. Un libro che corre via come un flusso di coscienza; una prosa battente, iterativa, che si avvolge su se stessa in spirali vorticose. L’autore si cala nei panni, o meglio nella testa, di Heinrich von Kleist (1777-1811) il nobile tedesco autore fra l’altro del dramma ‘Il principe di Homburg’ che qualche storico della letteratura annovera tra gli anticipatori del romanticismo” = Paolo Bianchin in “Libero”. “Come poeta è stato la rivelazione del 2006, ma da sempre bussa alla porta del romanzo. Si chiama Andrea Leone e probabilmente è un genio. Leggete il suo romanzo d’esordio, incontrollato, folle, in cui la materia travolge la forma, con tratti bui, poi lunghi rettilinei, a cui si alternano accensioni letterarie, svolte improvvise di inaudita forza. S’intitola ‘Il suicidio di Holly Parker’. È la storia di una passione letteraria, di una vita inaccettabile da cui si sprigiona una volontà di suicidio che si dà senso identificandosi con l’opera letteraria di un altro suicida celebre” = Luca Doninelli in “Il Giornale”. “Dopo ‘Kleist’, temerario e visionario flusso di coscienza dentro la testa del grande scrittore tedesco colto nelle sue ultime ore di vita, ecco ‘Hohenstaufen’, un altro capolavoro di un poeta vero e sommo, unico e altissimo, uno dei pochi rarissimi esempi di voce lirica limpida e già classica. Un poema con sprazzi di prosa, in 20 movimenti di romanticismo colossale e lirismo eroico. Un viaggio a ritroso verso le radici della storia europea e le fonti dell’ispirazione poetica. Andrea non teme di avventurarsi nella landa scivolosa del sublime e ne riemerge trionfante da vero Leone” = Manlio Benigni per “Rolling Stone”. “L’Ordine è un libro del Nord. Nord della terra e del pensiero, dei paesaggi e dei maestri. Sembra uscito da un film di Carl Theodor Dreyer, con il suo bianco e nero teso e allarmante, minacciato dal giorno del giudizio. Con il suo stile da ultimatum, con i suoi sostantivi monolitici e precisi, Andrea Leone ci conduce nelle stagioni trascorse e le intreccia a questo finale di partita. Finale vivissimo, scritto a lettere di sangue. Scagliandolo addosso a tutti noi con la forza di un epilettico, ci consegna il suo verbale e la sua invocazione” = Milo De Angelis dalla prefazione a “L’Ordine”. Questo suo ultimo libro in poesia ha la prefazione di Tiziana Cera Rosco che così scrive: “La scrittura di Andrea Leone non è un’escursione verso il centro. È il centro. […] In ‘Ludwig’ non c’è un tempo di avvicinamento, è già tutto spavento, è già tutto terremoto”. E io, così, di lui scrivo: “Potente è colui che sfida la vetta. Inusitata gloria, e tragedia, assieme. Impedirgli di andare è battaglia perduta, quindi o seguirlo, cercando di attenuarne le prometeiche ferite, oppure divorare con lui l’aquila, spogli di catene, di remore, di paure”. Entrate nell’opera di Andrea Leone, lo merita.
- STORIE MAGICHE di Remy de Gourmont, ESEDRA Editrice
Remy de Gourmont (1858 – 1915) è stato un poeta, romanziere, giornalista, scrittore e critico d’arte francese, vicino al movimento dei Simbolisti. Remy era figlio del conte Auguste-Marie de Gourmont e della contessa nata Mathilde de Montfort. La sua famiglia era originaria del Cotentin, ma un ramo di essa si era stabilito a Parigi nel XVI secolo per fondarvi una casa editrice che pubblicò libri e soprattutto numerose stampe e incisioni. Dal 1866 la famiglia abitò il maniero del Mesnil-Villeman, presso Villedieu (Manica). Remy de Gourmont frequentò il liceo di Coutances dal 1868 al 1876, quindi si stabilì a Caen, dove intraprese studi di Diritto. Ottenuto nel 1879 il diploma di laurea, si trasferì a Parigi, dove, nel novembre 1881, ottenne un impiego di addetto alla Bibliothèque Nationale. In quel periodo cominciò a collaborare a periodici cattolici quali “Le Monde” e “Le Contemporain”. Fra il 1882 e il 1886 pubblicò diverse opere di divulgazione storica. Il suo debutto letterario fu il romanzo “Merlette” (1886): l’opera fu accolta con indifferenza. In quello stesso anno de Gourmont scoprì le nuove ricerche estetiche del suo tempo attraverso la rivista “La Vogue” di Gustave Kahn. Frequentando quegli ambienti, conobbe Berthe de Courrière, modella ed erede universale dello scultore Auguste Clésinger, sul quale ella commissionò uno studio al giovane autore. I due divennero amanti. Sempre in quegli anni de Gourmont fece amicizia con Joris-Karl Huysmans, al quale dedicò “Latin mystique” (1892), frequentò la casa di Stéphane Mallarmé, in rue de Rome, e iniziò a collaborare con la rivista simbolista “Mercure de France”. Travolto da polemiche dovute alle sue simpatie per la Germania, perduto il posto di lavoro, fu colpito da una forma di lupus la cui progressione poteva essere frenata solo con cauterizzazioni estremamente dolorose, che gli deturparono il volto. Nel 1910 incontrò Natalie Clifford Barney. La passione per lei si espresse nelle “Lettres à l’Amazone”, pubblicate nel 1914. Sebbene martoriato nel viso, invalidità che lo costrinse per parecchio tempo in casa, con lei fece un breve viaggio in Normandia. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale i suoi amici partirono per il fronte mentre la nuova malattia che lo colse, l’atassia locomotoria, ben presto peggiorò. Il conte Remy de Gourmont morì per una congestione cerebrale il 27 settembre 1915 e fu tumulato nel cimitero di Père-Lachaise. Berthe de Courrière ereditò tutti i manoscritti e la biblioteca dello scrittore, che il fratello di lui, Jean de Gourmont, ricevette quando lei morì, meno di un anno più tardi. Jean si dedicò, per quasi dieci anni, a pubblicare numerosi inediti del fratello. De Gourmont fu considerato dalla critica come un “dissociatore” di idee. L’essenziale della sua opera era consacrato a questo suo esercizio cerebrale. Egli sosteneva che l’idea in partenza doveva essere necessariamente vera, quindi inattaccabile, e solo l’idea “amalgamata” dal sapere, dalla conoscenza, era discutibile. In tal senso, a livello creativo, era necessario un lavoro di dissociazione per liberare la verità dalla sua parte inquinata, per ritrovare la cosiddetta “idea pura” e renderla di conseguenza inattaccabile. Rémy de Gourmont, fine esteta, per molti fa ancora parte della famiglia degli autori erroneamente qualificati come “minori” – pensiamo anche a Schwob e a Lorrain – in cui, tuttavia, troviamo l’eco più fedele della particolare sensibilità di un’epoca, quei «classici singolari e quasi underground – per usare le sue stesse parole – che sono la vera vita della letteratura francese». Le sue sono innegabilmente tante “passeggiate letterarie” nei complicati e voluttuosi meandri del decadentismo di fine ‘800, e anche nel fascino un po’ morboso esercitato su di lui dall’occultismo e dalla magia. Comunque almeno per me stupende queste sue storie magiche, avvolte da zolfo e perversità, che restituiscono al loro autore il posto che gli spetta appunto tra Huysmans e Villiers de l’Isle-Adam.
- L’INDETERMINATO STRUTTURA IL DETERMINATO di Aldo Roda, Gazebo Libri
Aldo Roda è nato a Firenze nel 1948, città dove si è laureato in Architettura.
Nel 1966 ha iniziato a studiare il pensiero e l’opera di Rudolf Steiner. Da tali letture sono derivate molte sue interpretazioni riguardo la natura e l’arte. Per scelta oculata egli si è trasferito dalla città alla campagna, dove, in base a ciò in cui crede, il contatto diretto con la natura facilita la formazione di pensieri. L’incontro con l’Arte del Maestro tedesco Joseph Beuys, anch’egli studioso di Rudolf Steiner, ha consentito ad Aldo Roda una visione ampliata poetica e artistica. Le sue poesie posseggono una sublime sensibilità rivolta all’Uomo in rapporto costante con lo Spirito del Tempo. Le sue opere creative sono l’espressione di un Pensiero Forte in cui la conoscenza e l’etica si fondono nell’estetica, nei colori delle sue pitture e nelle forme astratte, nelle parole e nei grafici, nei concetti e nei messaggi. In solidale collaborazione con Lucrezia De Domizio Durini ha prodotto interessanti lavori: segnali, graffiti scientifici, performances, pitture concettuali, happenings e specifici libri d’artista. Ricordiamo le pubblicazioni: “La Forma del Pensiero” (1998), “Sale disciolto in acqua” (2003), “Mutazioni di zolfo” (2005), “Poesie. Omaggio a Joseph Beuys” (2006), “Suoni mercuriali” (2006), “Alchimie dello studiolo di Francesco I dé Medici” (2007), “Figure del sale” (2008), “Rompere la forma del tempo” (2011), “L’uomo in chiaroscuro” (2013). Aldo Roda è redattore della rivista “L’area di Broca”. Ha partecipato all’ “Evento Beuys”, nel corso della 52° Biennale di Venezia, e a molti happenings curati dalla De Domizio alla Maison de l’Italy, a Parigi. Importante la sua mostra “Architettura immateriale” presso lo Spazio Bianco, di Torino, nel 2014.
Nella cultura tedesca del XIX° secolo era diffusa la distinzione tra “Enciclopedia filosofica” e “Enciclopedia della filosofia”. Alla prima era riservato il compito di studiare tutte le varie forme del sapere da un punto di vista superiore e dunque filosofico, mentre alla seconda il compito della trattazione delle discipline filosofiche vere e proprie. Nel caso di Hegel, invece, l’enciclopedia venne assunta da strumento didattico, più o meno efficace, a forma di trattazione adeguata del sapere razionale per la sua sistematicità. L’oggetto generale della trattazione di quest’ultimo libro (oserei: libro d’arte) di Roda è la totalità della realtà intesa come ragione assoluta e infinita che, appunto, così come la considerava anche Hegel, si chiama “Idea”. Essa può essere affrontata in tre modi diversi: tramite la Logica, tramite la Filosofia della Natura e tramite la Filosofia dello Spirito. A questo punto mi sovviene il termine Aufhebung (cancellare, ma per divenire altro e altro ancora), che esprime l’idea di un superamento che è allo stesso tempo un pacificare questa opposizione e un conservare la verità della tesi e dell’antitesi, considerati a un livello superiore, ossia nella loro più alta accezione dialettico-filosofica, quindi produttivamente in scontro. Del resto ogni sintesi rappresenta a sua volta la tesi di un’altra antitesi, a cui succede un’ulteriore sintesi e così via. Tema affascinante, tema riguardo il quale molto abbiamo discusso Aldo e io.
- L’ESSERE DEBITORE di Antonio Curcetti, Edizioni Effimeri Estri
Antonio Curcetti è nato nel 1960. Ha pubblicato: “Tutto il resto è variazione” (Geiger 1974), “Reduci da un bel nulla” (Anterem 2000), “Poesie del linguaggio corrente” (Lythos 2004), “Aforismi” (petit O 2016) e l’edizione, fuori commercio, della sua traduzione integrale delle poesie di Klaus Kinski, raccolta titolata “Febbre-Diario di un lebbroso” (Nessuno Editore). Spesso ha collaborato con la rivista “Poesia” di Crocetti.
Così scrisse il saggista e poeta Tiziano Salari, alcuni anni fa, riguardo la poesia di Curcetti: “Curcetti pone al centro dell’indagine se stesso, radiografando allo specchio le proprie insufficienze; ma soprattutto constata l’assenza dell’Altro, cioè di quell’ordine simbolico o immaginativo, attraverso il quale si è venuta a comporre la sua identità in un succedersi di scissioni e identificazioni, […] l’autore non vuole perseguire le vie troppo facili dell’accomodamento nel silenzio o le formule consolatorie di interpretazione della realtà. E se nella reciprocità tra il poeta e il mondo nasce una poesia apparentemente negativa, apparentemente sfiduciata del proprio intimo, ‘la poesia assoluta, la poesia senza fede, la poesia senza speranza, la poesia non diretta ad alcuno’ (Gottfried Benn), è perché prima ancora viene il deserto”. Ma di chi è debitore Curcetti? O di chi è creditore? Secondo il filosofo serbo Ivan Dimitrijevic, docente all’Università di Torino, la separazione tra chi ha avuto e chi non ha avuto, dalla vita, ciò che si aspettava dà origine, assieme ad altre componenti di ordine “sensibile”, al Nichilismo. Per molto tempo lo spirito ha calunniato gli istinti vitali convincendo l’uomo che tali impulsi non fossero che materia corporea destinata a perire. Infatti la salvezza personale veniva fatta dipendere unicamente dallo spirito; siccome gli istinti e il corpo rivendicavano qui, sulla terra, uno spazio alla propria soddisfazione, sono stati percepiti alla stregua di un ostacolo sulla via che conduce nel regno dei cieli. L’esito cui la morale conduce è noto: calunniando gli istinti, lo spirito mina progressivamente le basi della propria esistenza. L’opera di Curcetti, a mio avviso, rientra in questo percorso. Del resto l’uomo non può creare un altro essere vivente di maggiore sostanza, di maggiore levatura, quindi è impossibile che possa “accedere ‘in’ o ‘a’ un oltre”. Nessun «sovrauomo» (nicciano) è, pertanto, realizzabile. Nessuna sintesi finale, fra la vita e lo spirito, è a disposizione della “razza bianca” (come la definiva Benn), la cui storia sta volgendo al termine. Il sovra-uomo è stata la sua ultima speranza, ma anch’essa è fallita nello svolgimento del XX° secolo. La pianta-uomo potrà di nuovo fiorire, ma i suoi fiori non conterranno alcuna semenza nuova, per cristallizzarsi, invece, in pura forma del “nulla”, in arido frutto dello spirito. Amen. Pare che tutti i “giochi” (mentali) siano perciò finiti, chiusi, andati. Risulta in equilibrio su tale linea, dell’essere e del non essere, la scrittura di Curcetti, seppure, in passato, egli abbia avuto il “coraggio” di scrivere: “Il tempo / guarisce tutto, / con qualche / incurabile / eccezione”. A questo punto necessita vedere se il nostro poeta rientra nella norma, da lui enunciata, oppure sia l’eccezione, incurabile, che conferma la regola. Personalmente propendo per la seconda ipotesi, e ciò me lo avvicina non poco.
ANCORA GRAZIE A COLORO CHE MI SPEDISCONO I LORO LIBRI, I LORO CATALOGHI E LE LORO RIVISTE …




