Ricordi d’infanzia
di Emanuele Fiano
Io avevo 8 anni e tutto fino ad allora, intorno a me era stato diverso. Poi mio padre trovò lavoro a Reggio Emilia. Per un anno, lavorò in quella città nuova vivendo in albergo durante la settimana, e tornando da noi il fine settimana. Imparai quell’anno la parola consulente, e siccome papà una volta con questa parola aveva appellato uno con un lungo cappotto beige chiaro, allora per me per lungo tempo queglimuomini con quei cappotti questo erano, consulenti… L’anno successivo fummo noi a trasferirci a Reggio con la mamma e mio fratello Andrea.
Abitavamo in una villetta a schiera, di un gruppo di 4, immersi nella campagna, a 800 metri da una strada statale appenninica. A pochi metri da noi sulla destra scorreva il torrente Crostolo all’epoca limpido e romantico quasi fosse un mare caraibico e di fronte avevo una cascina vera, una fattoria; un mondo che fino ad allora avevo visto solo nei libri. C’erano animali, mucche, maiali, c’era una cagna che mi voleva molto bene, la Lola, e c’era sopratutto il fattore, il contadino, che mi insegnava un sacco di cose che io non sapevo, sulla natura, sugli animali, sui raccolti, sulle stagioni.
Dietro di loro, sorgeva la villa padronale, un po’ come in Novecento di Bertolucci, la villa dello Spallanzani; raccolta e molto misteriosa, tutta dietro un alto muro di cinta con un’aria antica e dietro al quale emergevano alberi di diversissime fogge e altezze, tracce di una ricchezza nobile e forse decaduta. Sull’altro lato della fattoria, molti campi coltivati a trifoglio dove ricordo di aver corso a perdifiato un giorno che avevo invitato i compagni di scuola per festeggiare i miei 8 anni.
Ricordo questa corsa e questo verde che mi sembrava altissimo, con questi compagni nuovi, da poco conosciuti. Ricordo Mauro che zoppicava e rimaneva indietro e poi Afro, un po’ obeso, che era nato in Australia ed era di una famiglia che io percepivo come povera; per come lui si vestiva, per come era vestita la madre, per le cose di cui parlava. Alla fine di questa corsa ci fermammo davanti al portone della Villa Spallanzani, austero portone e alto il muro di cinta che racchiudeva quel giardino misterioso e ambito.
Del contadino non ricordo il nome, ma ricordo invece bene un locale della cascina che stava a ponte sopra un portico dove lui mi invitò, facendomi vedere i salumi vari messi a stagionare, e dei formaggi pure, in una stanza che a me sembrava come magica, intrisa di quegli odori forti e misti di fragranze animali e poi del legno e degli odori di campagna, tutti per me nuovi. Molte le storie che mi raccontava ma non me le ricordo, se non che un giorno proprio mentre lui armeggiava con degli strumenti di lavoro, un topolino di campagna di corsa attraversò per lungo quella stanza, e lui, quasi urlando per l’impresa lo prese al volo lanciandogli una roncola che lo prese in pieno, con sangue e mio spavento vero, un soprassalto per me, di violenza inaspettata, per lui un normale pezzettino del ciclo della vita naturale. Era tutto natura per loro, per me come la jungla, a casa noi non mangiavamo maiale, loro mi invitarono a vedere l’uccisione del maiale, un rito, un passaggio obbligato nello scorrere dell’anno; ricordo le urla animali e quasi umane e poi il maiale appeso in verticale, come crocefisso, e loro che lo tagliavano, facendo colare il sangue, e mi spiegavano che nulla veniva buttato via, con mio grandissimo schifo. E ricollegavo quella scena, a quei salami appesi, e a quel topolino tagliato in due dalla roncola. Tutto nuovo, sangue, animali, natura, urla. A casa mia era tutto libri, e racconti, e città.
Poi c’era la Lola, che io abbracciavo quasi fosse una sorella, lei sempre alla catena. Quando partimmo piansi a lasciarla. E lei guaiva, strattonando.
Al torrente scoprii i girini, era pieno, l’acqua limpidissima ne faceva vedere centinaia. Nel mezzo del torrente, con acqua calmissima, sorgeva una specie di piccola isoletta che a me sembrava quella dei pirati. Ci andavo da solo, attraversando l’acqua bassa. Leggevo Tom Sawyer e mi immedesimavo in quelle avventure. Poi si vede che arrivò un’industria nuova, tutto ad un tratto proprio prima della seconda estate, l’acqua si inquinò, si intorbidì, comparvero come delle bave sporche di qualche materiale lattiginoso. Non mi piaceva più guadare il torrente, era cambiato.
Quell’estate poi, l’ultima passata li, arrivo un giorno papà tutto trafelato, parcheggiando di corsa con stridore di pneumatici davanti alla casa, urlando che bisognava partire, io ero dentro una piscinetta di gomma davanti alla villetta, la mamma mi fece uscire rapidamente e asciugare di corsa, capivo solo che mio fratello Andrea si era fatto male ma non capivo altro; Andrea era lontano, in Toscana, a un campeggio di scout. Corremmo, all’impazzata, verso Barga, Lucca, Andrea era caduto da un ponte, in un torrente con pochissima acqua e si era spezzato due vertebre, era immobilizzato in questo ospedale piccolino, la mamma e papà avevano visi stravolti dalla paura per lui, io dormivo nella casa dei responsabili scout, papà e la mamma si davano il turno in ospedale, dormendo con lui che si lamentava per il dolore. Me lo fecero vedere solo un momento, magro e pallido con un gran cesto di riccioli neri. C’era molta tensione che io non riuscivo bene a decifrare, se non che capivo che Andrea era grave e non doveva essere mosso. Poi fu ingessato, trasferito a Firenze, e trascorse vari mesi con questo gesso gigantesco che lo bloccava a letto. Tutto finì bene.
Ma fu con questa malefica estate di tensione per mio fratello che finì anche l’avventura della scoperta della campagna e della natura a Reggio Emilia, e un po’ fini l’età bambina. Tornammo a Milano, definitivamente, era finita una parentesi, si tornava nel mio quartiere, al Lorenteggio, dove però ancora pascolavano le pecore.