Ricordando Mario Francese
di Paolo Borrometi
È sera, la sera del 26 gennaio di 43 anni fa. Mario Francese ha finito la sua giornata alla redazione del “Giornale di Sicilia”, arriva sotto casa e scende dall’auto quando, alle spalle, il cognato di Riina, Leoluca Bagarella, gli spara numerosi colpi d’arma da fuoco.
E’ così che, il corpo senza vita del giornalista, rimase sull’asfalto. Su quelle stesse strade palermitane insanguinate da numerosi omicidi che Francese aveva raccontato con certosina attenzione.
“Mario Francese è morto perché ha detto ciò che non doveva dire, secondo l’ordine stabilito da cosa nostra, e ha scritto ciò che per i mafiosi non doveva essere scritto e portato alla coscienza di tutti”.
Basta rileggere queste parole che costituiscono uno dei passaggi più salienti della requisitoria di Laura Vaccaro, la Pm del processo che, soltanto anni dopo e grazie alla testardaggine dei figli Giulio e Giuseppe, portò alle condanne a 30 anni per tutti gli imputati (da Salvatore Riina a Francesco Madonia, passando per Michele Greco, Antonino Geraci, Giuseppe Farinella, Matteo Motisi, Pippo Calò per essere stati i mandanti, Leoluca Bagarella e Giuseppe Madonia gli esecutori).
Per anni si disse “la mafia non c’entra nulla”. La storia di Mario Francese venne relegata all’oblio ma Giuseppe Francese, il figlio più piccolo, si rimboccò le maniche e iniziò a ricostruire l’attività di suo padre attraverso i suoi articoli. Il suo obiettivo era di trovare dei collegamenti tra gli appalti della diga Garcia, l’omicidio Russo e gli attentati al caporedattore e direttore del giornale di quel tempo.
Nel quarantaduesimo anniversario dalla morte di Mario Francese è giusto ricordare anche il figlio Giuseppe che, subito dopo le condanne dell’intera cupola di cosa nostra per l’omicidio del padre, decise di aver esaurito il suo ‘compito’ su questa terra e pose fine alle sue sofferenze iniziate quella sera con il suono degli spari.
