Ribelli d’Europa, nel nuovo libro di Alberto Simoni

di Armando Pepe

Per una collana, nuova ed innovativa per l’impostazione e per la facilità di lettura, pubblicata da Paesi edizioni, è uscito di recente il libro Ribelli d’Europa. Viaggio nelle democrazie illiberali da Visegrád all’Ucraina, scritto da Alberto Simoni, giornalista del quotidiano torinese La Stampa, di cui è corrispondente dagli Stati Uniti. Il tema delle torsioni autoritarie in ambito europeo è quantomai di stringente attualità, anche per le condizioni politiche italiane. In un quadro di ampio respiro, su di una base documentaria solida ed equilibrata, si snodano le vicende dei leaders conservatori dell’Europa dell’Est, che nel 1991 diedero vita al gruppo di Visegrád, composto da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. Nel prologo l’Autore si sofferma giustamente sull’idea che l’ha indotto ad occuparsi di questi argomenti, sostenendo che il «libro è nato il giorno in cui ho deciso che avrei intervistato Viktor Orbán. Ho cominciato a studiare il personaggio, a immergermi nella storia dell’Ungheria, a sfogliare riviste, a consultare libri, a contattare esperti, reduci del 1989, vecchi amici e nuovi avversari, politici, diplomatici, analisti» (p. 15). È uno studio condotto con serietà, scrupolo e coscienza, che si pone l’obiettivo di comprendere le mosse, e le ragioni che ne stanno dietro, soprattutto di chi comanda sia in Ungheria sia in Polonia, con le loro differenze di fondo, essendo tanto Orbán legato a Putin, quanto lo è la Polonia nei confronti della NATO. Le differenze in seno all’asse di Visegrád, effettivamente si possono cogliere anche dal comportamento verso il conflitto russo-ucraino, dalle tensioni provocate dal leader magiaro Orbán, che non si allinea totalmente alle posizioni atlantiste, anzi arrecando spesso disturbo. Guardando, tuttavia, al comune denominatore, si può osservare che entrambe le nazioni (Ungheria e Polonia) hanno virato decisamente a destra, nel solco del tradizionalismo identitario, sposando tesi altamente populiste. Analogie e diversità emergono in modo lampante perché l’Autore si pone sempre in modo critico, segnatamente quando analizza la disarmonia di vedute all’interno del fronte reazionario est-europeo. Gli esponenti massimi del nazionalismo a tinte illiberali «accomunati una volta dalla lotta contro la Russia» (p. 34), ora sono su posizioni differenti, poiché se «Biden ha fatto tappa a Varsavia nel suo viaggio in Europa di fine marzo (2022) e al Palazzo reale della Città vecchia ha tenuto il discorso in cui ha ribadito la dottrina del confronto fra democrazie e autocrazie come perno della strategia USA, mai invece c’è stato un contatto diretto con Orbán o con i suoi ministri. L’isolamento ungherese sulla scena internazionale è palpabile. […] Il premier ungherese è considerato un vassallo di Putin. Benché abbia sostenuto tutti i round di sanzioni, il suo atteggiamento di capofila dei riluttanti, lo porta ad essere percepito come inaffidabile sia dai media sia nelle stanze del Dipartimento di Stato. Non lo aiutano, inoltre, i report sulla democrazia di Freedom House, che ha collocato l’Ungheria- sia nel 2020 sia nel 2021- sotto la categoria dei “regimi ibridi”, ovvero di quelle nazioni in cui la democrazia sta scivolando verso l’autocrazia» (p. 39). I legami con l’estrema destra statunitense, il misoneismo, la manifesta antipatia a piè sospinto perpetrata verso il finanziere George Soros, l’avvitamento legislativo che punisce gli omosessuali, rappresentano le costanti della politica praticata costantemente dal presidente ungherese. Difatti, sottolinea Simoni che «se la democrazia illiberale già collocava Orbán su una linea di conflitto con Washington e la sua posizione nella guerra in Ucraina ha acuito il divario, un destino opposto sembra invece abbracciare la Polonia. I rapporti con il governo targato Pis (il partito al comando in Polonia) non sono certamente caratterizzati da una sintonia di vedute sulle questioni sociali e sui diritti civili. Il Dipartimento di Stato nel 2022 ha diffuso il primo rapporto sulle iniziative che gli Stati Uniti sostengono nel mondo a favore delle comunità omosessuali e transgender. In Polonia gli Usa hanno avviato una campagna sui social e sui media tradizionali contro le pratiche discriminatorie e l’incaricato d’affari statunitense ha preso una posizione molto netta intervenendo alla Conferenza Impact 21 di Varsavia, dove ha parlato di inclusione e diversità messe a repentaglio da alcune scelte politiche: è un riferimento alle zone off limits per trans e gay istituite simbolicamente in un terzo dei comuni polacchi (e per questo finiti nel mirino della UE)» (p. 41). Con evidenza palmare, attorno alla permanenza di Ungheria e Polonia nell’Unione Europea, sorgono dei dubbi grandi quanto una casa; mica hanno preso la comunità formata da liberi Stati europei a guisa di bancomat? Per mungere soldi e fare ciò che più loro aggrada? È un sospetto che molti analisti, ma anche persone normali, nutrono seriamente. Tuttavia, l’intreccio tra ragioni libertarie democratiche di stampo europeo e l’opportunità di ampliare le alleanze allo scopo di osteggiare Putin diventa un rovello di ardua soluzione. Facendo di necessità virtù, gli Stati Uniti chiudono a volte gli occhi, quando devono essere per forza chiusi. In questo modo, con gli occhi chiusi, «L’America non ha alleato più solido della Polonia nel contenimento e nel confronto con la Russia.  (Jarosław Aleksander) Kaczyński ha aperto alla possibilità di ospitare sul terreno polacco testate atomiche statunitensi, evidenziando che “ha senso in questo momento allargare la deterrenza nucleare al fianco orientale della NATO”. Ha quindi ribadito la disponibilità ad accogliere più soldati americani sia in Polonia sia in Europa, sostenendo che “75 mila militari statunitensi dovrebbero essere dislocati ai confini Est dell’Alleanza. Il presidente Duda è una presenza fissa dei vertici del G7» (p. 41). Se Orbán provoca rabbia e sdegno nei consessi europei, arrivando taluni capi di governo e ministri degli esteri a fare dichiarazioni ferme e decise su di un’eventuale espulsione ungherese dall’UE, i politici polacchi agiscono in sottotraccia, proni allorquando è il momento di esserlo. Qual è realmente, però, la concezione di Stato che hanno in mente sia Orbán sia Kaczyński? Simoni scrive che «A differenza degli alfieri rumorosi e guastatori che popolavano la politica nei Paesi dell’Europa occidentale, (Lech) Kaczyński (morto in un incidente areo nel 2010) – al pari di Orbán in Ungheria- il potere lo deteneva veramente. (Lech e Jarosław Aleksander erano fratelli gemelli). Anche se lui lo esercitava da segretario del Pis anziché da una poltrona governativa, dopo l’esperienza del biennio 2006-2007. I due leaders di Ungheria e Polonia le battaglie contro le élites le avevano già fatte e potevano ora dare forma a quell’idea di Stato-nazione che avevano in mente da oltre un decennio: per Kaczyński l’Estado novo era la Quarta repubblica polacca; per Orbán era il Workfare State» (p. 107).  Nella seconda parte del libro, l’Autore affronta anche le politiche sociali attuate dai due Stati per far tornare indietro gli emigrati e recuperare un tenore di vita che stia al passo con i paesi occidentali, esaminandone puntigliosamente punti di forza, discrasie ed ambiguità. Chissà che sembianze avrà il perimetro garantista e liberale europeo, chi si ricollocherà e dove, nello schema delineato magistralmente da Alberto Simoni, dopo le elezioni che si terranno in Italia il prossimo 25 settembre. Potrebbe essere l’oggetto di studio di un altro volume.

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