Quando cadono le stelle
di Gian Paolo Serino
Da “Quando cadono le stelle” Baldini+Castoldi #giornatadellamemoria
Durante la guerra vivevo a Parigi. Un giorno una SS venne nel mio studio.
A quel tempo non potevo esporre. Lavoravo e basta. Era frustante. Avevo quasi sessant’anni.
Durante i primi mesi di occupazione la città gemeva spossata dal ritmo assordante delle marce e delle parate militari.
I tedeschi mi odiavano. Come odiavano tutta l’arte. Eppure venivano nel mio studio ogni giorno. Avevano sempre da dire qualcosa. A loro non interessava niente del contenuto artistico. Gli interessava quello politico. Le mie opere non ne avevano, e loro volevano trovarcelo per forza. Le esaminavano cercando qualcosa che potesse essere interpretato come resistente, o dissidente, o chissà cosa volevano trovare.
È strano. Non sapevano nulla di arte, ma sembravano comunque più competenti di tanti critici che giudicano i miei quadri.
Un giorno venne a trovarmi un ufficiale delle SS. Non lo conoscevo, non l’avevo mai visto.
Era basso, a differenza di tutti gli altri tedeschi che erano venuti a interrogarmi. Era pallido e non era biondo. Io pensavo che i tedeschi fossero tutti biondi. Come se l’essere biondi avesse fatto parte della loro divisa. Portava gli occhiali, aveva il viso allungato e il naso aquilino, gli occhi piccolissimi, quasi socchiusi. Aveva un aspetto così ordinario e inoffensivo che sembrava più un ragioniere del ministero delle finanze che una SS.
Indossava un impermeabile nero sulla divisa. Fuori pioveva. I suoi stivali facevano scricchiolare le assi di legno del mio studio.
Nessun tedesco fino a quel momento era mai venuto a trovarmi da solo. Erano sempre stati almeno in due. Di solito parlavano in lingua fra loro e ridevano dei miei quadri. Schernivano tutto ciò che odiavano e odiavano tutto ciò che non capivano. – Sembrano i disegni di un bambino, Monsieur. – mi aveva detto una volta uno di loro in francese, un soldato semplice che non avrà avuto più di vent’anni.
Questo, a oggi, è il commento più intelligente che sia mai stato fatto su una mia opera.
La SS ispezionava lenta e silenziosa lo studio. Le mani dietro la schiena. Esaminava le mie opere senza dire una parola. Ogni tanto annuiva.
– Le piacciono? – gli chiesi.
Lui non mi rispose.
Improvvisamente mi rivolse lo sguardo. – Lei ha conoscenze con artisti ebrei, Monsieur?
– No. Lei?
– Posso vedere i suoi documenti Monsieur?
Li esaminò. Il mio passaporto, la mia carta dì identità, tutto quello che trovò. Mi chiese i documenti solo per farmi perdere tempo. Per irritarmi. Io sedevo dietro il mio tavolo, tamburellando con le dita sul piano di legno. Non fare niente mi innervosiva. Lui sembrava che lo sapesse, vista la lentezza con cui faceva qualunque cosa.
Si sedette davanti a me. – Posso fumare? – mi chiese.
Io allungai il braccio, in segno di assenso.
L’ufficiale estrasse un astuccio dalla tasca dell’impermeabile e tirò fuori una sigaretta. Mi chiese se ne volessi una. L’accettai.
Fumammo senza dire una parola. L’ufficiale non la smetteva di fissarmi. Come se volesse che gli confessassi qualcosa. Io capii subito il gioco. Lo fissai a mia volta. Come se volessi che mi confessasse qualcosa lui.
Fumavamo e ci fissavamo. Potevamo sembrare due giocatori di poker nel momento di mostrare le carte.
– Ho una proposta da farle, Monsieur. – L’ufficiale si tolse il cappello. Lo posò sul tavolo. Si sistemò i capelli.
– Di che si tratta, Monsieur?
Diede una lunga boccata di fumo. – Vorremmo che collaborasse con noi. Ci indichi tutti gli artisti ebrei che conosce Monsieur, e noi non la disturberemo più.
– Mai più, Monsieur? È sicuro?
– Mai più.
– Bene.
– Bene Monsieur.
– Amedeo Modigliani. Andate a prendere quella canaglia giudea.
L’ufficiale tirò fuori un taccuino e una penna.
– Bene Monsieur. Dove possiamo trovare questo suo amico Modigliani?
– A Père Lachaise. È lì che vive, monsieur.
L’ufficiale alzò la testa dal taccuino e fece una smorfia lieve, come di dolore. Bastò quel gesto, spontaneo, naturale, perché lo vedessi per quello che era: soltanto un semplice impiegato. Uno che doveva obbedire ai suoi capi. Non gliene sarebbe mai importato niente di tutti gli ebrei del mondo, tantomeno di quelli di Parigi. Era solo un impiegato, e di un’ignoranza mostruosa, tanta da non conoscere Modigliani e da non sapere che era sepolto nel cimitero di Père Lachaise.
Iniziò a ridere, nervosamente. Come se avesse avuto l’obbligo di uscire dal mio studio con una lista di nomi.
Buttò la sigaretta. La spense con il tacco.
– Mi dispiace non poter essere più d’aiuto. – Dissi.
L’ufficiale annuì. Poi disse una cosa che non mi sarei mai aspettato.
– Un giorno appenderemo per i piedi lei e tutti i suoi ebrei, Monsieur. Arrivederci.
Prese il taccuino e la penna. Li rimise nel taschino dell’impermeabile.
Non capii la sua reazione. Me la spiegai molto più tardi. Quell’ufficiale rappresentava la sintesi più esatta della guerra, era l’atrocità calata nell’aspetto dell’ordinario.
L’ufficiale si rimise il cappello. Sul tavolo notò delle stampe in miniatura di Guernica.
– L’avete fatto voi questo orrore, Monsieur?
Spensi la mia sigaretta. Sorrisi.
– No, monsieur, l’avete fatto voi.
Si voltò. Sparì.
Non so davvero se capì quello che volevo dire.
