Puerto Escondido
di Massimiliano Griner
Ho rivisto “Puerto Escondido”, il film di Salvatores del 1992, e mi sono chiesto che cosa ci abbia trovato di tanto esaltante a vent’anni.
Certo è un’età in cui è facile entusiasmarsi, e quel film ti metteva la voglia di andarci davvero, in Messico, cosa che ho potuto fare solo diversi anni dopo.
Quel desiderio di viaggiare è cresciuto, invecchiando, ma altro non riesco più a apprezzare del film.
Non la poesia, se ce n’è, tantomeno il rigido l’afflato terzomondista delle “sciure” in pelliccia nella Milano da bere fianco a fianco dei “vucumprà” (allora si chiamavano così) che chiedono l’elemosina in via Durini, con cui Salvatores apre il racconto della fuga del banchiere Abatantuono in Oaxaca.
A un certo punto il navigato Bisio, che in Messico vive di espedienti, mostra a un ignaro Abatantuono un peyote appena scovato (anche se Golino, che di Bisio è la compagna, rimarca che è il peyote a trovare noi e non l’incontrario. Bah).
Per magnificarne le virtù allucinogene, che deve aver provato, Bisio spiega: “Ti dico solo che lo chiamano la carne degli Dei”.
Ora, come possa un cactus sembrare “carne”, anche se divina, non è dato sapere, semmai dovrebbe essere la “verdura degli Dei”, e non ho idea del motivo per cui mi sia bevuto questa castroneria da imberbe.
In realtà, come ora mi è chiaro, la parola “teonanácatl” è parola azteca con cui è designato il fungo sacro psilocibinico, che in effetti in quanto fungo potrebbe anche sembrare “carne”.
Uno svarione che rivela tutta la superficialità dell’operazione.