Pontormo
di Roberto Cafarotti
“Daje: fàcce quella bella!”
Fu il grido dalla platea che un fan, diciamo un po’ “sopra le righe” rivolse a Fabio Concato, durante uno dei suoi numerosi concerti, in una città di periferia.
Lo raccontò lui stesso in un concerto al quale ero presente. Ci fece ovviamente molto ridere.
L’aneddoto mi viene spesso in mente quando qualcuno in genere vuole richiamare l’opera principale del repertorio di un artista famoso ma non ne ricorda il titolo.
Se Pontormo fosse stato una star dei giorni nostri, magari un musicista, forse qualcuno gli avrebbe chiesto di riprodurre quest’opera capolavoro come “quella bella” ovvero la più celebre del suo repertorio, proprio come accaduto a Concato.
Ma andiamo per ordine.
Vasari celebrò le lodi di Jacopo Carrucci detto il Pontormo come un grande artista. Ne evidenziò il talento precoce sottolineando però che la sua vita si poteva considerare in due parti. Una prima dove l’artista fu molto apprezzato, considerato come un prodigio e un promettente talento, cosa peraltro riconosciuta anche dallo stesso Michelangelo in persona.
Poi, una seconda parte in cui – secondo Vasari – l’artista fu sopraffatto da una incombente spirito inquieto che lo portò via via ad abbandonare quell’indirizzo intrapreso – nel solco della tradizione dei modelli fiorentini – per seguire altri “strani lidi” sino a che, dopo la sua scomparsa, il suo nome si perse in un profondo oblio lungo oltre tre secoli.
Dobbiamo attendere i primi anni del XX secolo, quando l’arte di Pontormo fu riscoperta dagli studiosi, e soprattutto dagli artisti delle Avanguardie che riconobbero in lui le radici di un pensiero libero da condizionamenti.
Di quest’opera – “quella bella” – però vorrei entrare un po’ più nel merito.
L’artista la concepì per la cappella privata della blasonata famiglia Capponi, all’interno della chiesa di Santa Felicita.
Vasari dice che l’artista era talmente ossessionato da questo lavoro che non solo pretese che ne fosse esclusa la vista al pubblico ma persino al committente, sino al suo completamento.
Chiunque la osservi può constatare quanto sia evidente la sua temeraria composizione. E penso quanto possa essere stato sconvolgente l’impatto che ebbe sui committenti e presso il pubblico fiorentino quando questo immenso capolavoro fu esposto.
In senso stretto, non è una Deposizione. Ovvero le manca l’elemento iconografico di riferimento: la Croce. Altrettanto non è una Pietà, poiché la Vergine è distante dal Figlio secondo i modelli tradizionali che vogliono il corpo di Cristo in grembo alla Madre dolente. Qui invece assistiamo a una scena piuttosto convulsa: dodici figure che si esprimono tutte in una posa completamente differente, dando all’insieme una impostazione dinamica, che sfugge a una visione lineare dell’opera. L’occhio salta da una punto all’altro seguendo il vortice delle linee di forza.
La tavola non ha quindi una polarità definita; non c’è un centro della composizione evidente su cui si sviluppa una disposizione tradizionale dello spazio, con una quinta più o meno frontale e un’apertura sullo sfondo. Le figure si sormontano seguendo uno schema elicoidale, conico, dove – insolitamente – Cristo non è al centro. Egli sembra sia privo della propria dimensione corporea ed abbia già assunto una sostanza spirituale piena in prossimità della sua Resurrezione. La linea spezzata del suo corpo si sviluppa partendo dalla base per salire verso l’alto, unendosi al braccio per formare una freccia virtuale che indica il vertice della composizione.
Come le linee di forza sembrano aprirsi in maniera sfuggente anche le direzioni degli sguardi si intrecciano seguendo uno schema libero. Nessuno di questi è orientato verso l’osservatore, fatto salvo della figura a destra a base dell’ascesa dell’arco. Si tratta di Nicodemo, personaggio nel quale l’artista si è voluto identificare in un autoritratto.
Colui che sostiene le gambe del Redentore, diventa il fulcro su cui poggia tutta la struttura compositiva: l’unica sulla quale si scarica il senso di gravità della scena. Più che lo sforzo fisico, si nota quella posizione accovacciata e innaturale nella quale tutto il peso si scarica sulle dita dei piedi.
La Vergine è un altro punto di riferimento eccentrico rispetto alla composizione. Le braccia manifestano un dolore incontenibile e il desiderio di raggiungere il figliolo. Nell’abbandono del braccio sinistro si legge l’incapacità di coordinare i movimenti e la necessità del sostegno dalle ancelle. Alla sua destra ne vediamo una di cui si scorge la sola nuca. Ha un turbante dal quale scende un lembo di tessuto che, come una carezza, avvolge la guancia di Cristo, accompagnando la mano della pia donna.
Un’ancella bionda, a figura piena, ci volge le spalle ed è ornata da un vestito rossastro. Pare scolorire nell’effetto di una luce così potente da trasfigurare le forme. Questa luce suprema colpisce con violenza anche quella figura che sostiene il Cristo.
È quindi la luce l’elemento che utilizza Pontormo per dare all’insieme un’atmosfera mistica.
L’artista riesce attraverso questa stupefacente composizione a creare il senso di un’imminente trasfigurazione delle immagini, come se la scena descrivesse una trasformazione del registro emotivo, da quello materiale, in cui le figure sono ancora presenti in una dimensione terrena, a quello trascendente in cui il Regno di Cristo si sta per compiere nella sua pienezza grazie alla consumazione del sacrificio del Redentore.
Direi che se si vuole comprendere il potere della pittura in tutta la sua potenzialità espressiva e nei suoi possibili piani di comunicazione, quest’opera ne è una sintesi perfetta, una delle più significative dell’arte mondiale. Una di quelle “belle” di cui ricordarsi citando Pontormo.
(Roberto Cafarotti)
Jacopo Carrucci detto il Pontormo ( 1494-1557)
Deposizione, 1526 ca. Tempera su tavola, cm. 313 x 192. Cappella Capponi presso la Chiesa di Santa Felicita, Firenze.
