Il cinema di Pier Paolo Pasolini e il mistero della sua morte nel centenario della sua nascita

di Domenico Palattella

Il maestro Pier Paolo Pasolini, lo scorso 5 marzo, avrebbe compiuto cento anni. Apprezzato o discutibile che sia, il suo fervore artistico ha attraversato quasi tutti i campi dell’arte italiana del XX secolo: poeta, scrittore, regista, sceneggiatore, drammaturgo, filosofo e giornalista di spessore universale. Insomma, uno dei maggiori artisti e intellettuali italiani del XX secolo.

Dotato di un’eccezionale versatilità culturale, si distinse in numerosi campi, lasciando contributi come cineasta, pittore, romanziere, linguista, traduttore e saggista non solo in lingua italiana, ma anche friulana. Attento osservatore dei cambiamenti della società italiana dal secondo dopoguerra sino alla metà degli anni settanta, suscitò spesso forti polemiche e accesi dibattiti per la radicalità dei suoi giudizi, assai critici nei riguardi delle abitudini borghesi e della nascente società dei consumi, come anche nei confronti del Sessantotto e dei suoi protagonisti. Il rapporto con la propria omosessualità inoltre, è stato al centro del suo personaggio pubblico.

  1. Cinema e letteratura: il prodotto alto di un solo autore

Pier Paolo Pasolini esordì nel cinema negli anni ’50, quando già era un intellettuale affermato, come soggettista e sceneggiatore collaborando, tra gli altri, con Mario Soldati, Mauro Bolognini, Federico Fellini e Bernardo Bertolucci. Pasolini rappresenta un caso particolare e certamente il più emblematico del Novecento di come cinema e letteratura possano essere il prodotto alto di un solo autore. Egli riesce a legare il ruolo di scrittore a quello di regista in un rapporto perfettamente circolare. Caso unico in Italia, Pasolini è riuscito ad essere autore di una “scrittura unificata”, come mostra, in particolare con Teorema, quando contemporaneamente gira il film e scrive il testo, lasciando che i due tipi di narrazione interagiscano tra loro. Una pagina significativa in cui l’autore illustra il suo passaggio dalla letteratura al cinema si trova in Una premessa in versi:

Nel ’60 ho girato il mio primo film, che
s’intitola “Accattone”.
Perché sono passato dalla letteratura al cinema?
Questa è, nelle domande prevedibili in una intervista,
una domanda inevitabile, e lo è stata.
Rispondevo sempre ch’era per cambiare tecnica,
che io avevo bisogno di una nuova tecnica per dire una cosa nuova,
o, il contrario, che dicevo la stessa cosa sempre, e perciò
dovevo cambiare tecnica: secondo le varianti dell’ossessione.
Ma ero solo in parte sincero nel dare questa risposta:
il vero di essa era in quello che avevo fatto fino allora.
Poi mi accorsi
che non si trattava di una tecnica letteraria, quasi
appartenente alla stessa lingua con cui si scrive:
ma era ella stessa una lingua…
E allora dissi le ragioni oscure
che presiedettero la mia scelta:
Quante volte rabbiosamente e avventatamente
avevo detto di voler rinunciare alla mia cittadinanza italiana!
Ebbene, abbandonando la lingua italiana, e con essa,
un po’ alla volta, la letteratura,
io rinunciavo alla mia nazionalità.

Non di rado Pasolini nei suoi film utilizza scrittori per indossare i panni dell’attore, seguendo l’esempio di Elio Vittorini che nel 1953 impersona in “Giulietta e Romeo” di Renato Castellani, il personaggio di Bartolomeo della Scala. In “Accattone” affida infatti una parte ad Elsa Morante e con lei, nel 1968, scrive la musica per Medea: nel decennio seguente fa interpretare a Paolo Volponi il ruolo di un prete in “Mamma Roma”(1962), in “Uccellacci e uccellini” 1966 la voce dell’intellettuale (il corvo) è fornita da Francesco Leonetti, ad Alfonso Gatto viene affidata in “Teorema” (1968) la parte del medico e l’amico Giuseppe Zigaina interpreta nel “Decameron” del 1971 il ruolo del frate confessore di Cepparello e lo stesso Pasolini il ruolo di Giotto.

  1. Il percorso cinematografico di Pasolini

Perché amo il cinema?
« Ho dato varie spiegazioni del perché amo il cinema e sono passato al cinema. Ho voluto adoperare una tecnica diversa spinto dalla mia ossessione espressiva. Ho voluto cambiare lingua abbandonando la lingua italiana, l’italiano; una forma di protesta contro le lingue e contro la società. Ma la vera spiegazione è che io, facendo il cinema, riproduco la realtà, quindi sono immensamente vicino a questo primo linguaggio umano che è l’azione dell’uomo che si rappresenta nella vita e nella realtà. »

Pasolini è stato principalmente un uomo di cultura e portatore di un pensiero-contro. La sua visionarietà artistica si è espressa in egual maniera nel cinema e nella letteratura, in forma di narrativa, saggistica e poesia. Il rapporto di Pasolini con il cinema è stato condotto per gradi, dapprima come sceneggiatore, poi come collaboratore alla regia di importanti e già affermati registi, per poi passare alla regia autonoma vera e propria. Alla fine si conteranno 23 film diretti da Pasolini, a partire da “Accattone” del 1961, fino all’incompiuto “Porno Teo Kolossal” del 1976, rimasto incompiuto causa la violenta morte del 2 novembre 1975. Nel 1953 viene chiamato da Giorgio Bassani a collaborare alla sceneggiatura per La donna del fiume (1954) di Mario Soldati. Negli anni cinquanta, era frequente la ricerca di collaborazioni letterarie di un certo livello alla stesura di sceneggiature cinematografiche per tentare di rialzare il livello medio e dopo la pubblicazione di Ragazzi di vita, Pasolini diviene piuttosto ricercato soprattutto per progetti che hanno come argomento la vita nelle borgate. Ne Le notti di Cabiria (1957) di Federico Fellini si dedica in particolare alle sequenze dedicate alla prostituzione; nel 1958 collabora ad Addio alle armi di King Vidor. Del 1959 la stesura del soggetto, insieme a Giuseppe Berto di Morte di un amico diretto da Franco Rossi, in seguito collabora spesso con Mauro Bolognini, in particolare per La notte brava in cui per la prima volta si impegna con un contributo originale, da lui considerato al pari di un’opera letteraria. La commare secca (1962) avrebbe dovuto costituire il suo esordio alla regia, che alla fine passerà a Bernardo Bertolucci, anche lui alle prime armi.

2.1 Pasolini regista

Come regista, Pasolini ha creato una sorta di secondo neorealismo, sfruttando costantemente ed in maniera profonda gli aspetti che più fanno della vita quotidiana una sorta di commedia dell’arte. Non si preoccupò di nascondere ogni particolare, anche il più miserevole; e questo gli attirò ancor più l’ostracismo di quegli strati sociali e di quei gruppi politici interessati, per contro, a tenere nascosta una realtà scomoda che, se esaminata con l’occhio visionario dell’artista e del poeta, poteva risultare destabilizzante. I contrasti tra Pasolini e l’opinione pubblica contribuirono sicuramente a mostrare e a focalizzare tematiche connesse al moralismo sessuale, anche se questo gli provocò una sorta di generale disapprovazione fino ad una vera e propria discriminazione culturale. Pasolini inizia la sua attività di regista nel 1961 con il film Accattone che ambienta nelle borgate romane riprendendo temi e personaggi del suo romanzo Ragazzi di vita. Il film vuole essere un’accorata testimonianza e drammatica adesione alla violenza antiborghese degli emarginati. Nel 1962 produce il lungometraggio Mamma Roma nel quale riprendeva personaggi e ambienti del film precedente con l’intento di arricchire in modo più articolato il proprio universo. Se infatti nella narrazione di “Accattone” egli illustra un processo di dissolvimento, in Mamma Roma si intravvede una prospettiva di riscatto, anche se frustrata, attraverso il raggiungimento di uno status socialmente riconosciuto e rispettato, oltre l’emergere del senso protettivo materno che non riuscirà, comunque, a preservare la fragilità del figlio. Nel 1963 con il mediometraggio La ricotta (episodio del film Ro.Go.Pa.G.), Pasolini giunge a uno dei più intensi risultati del suo cinema. In esso viene presentata la tragica “Passione” di un sottoproletario, Stracci, del quale lo schermo sottolinea la umiliazione e la sofferenza. Nel 1965 Pasolini produce il lungometraggio Il Vangelo secondo Matteo che era stato preceduto dal film di montaggio La rabbia, dal film d’inchiesta sul comportamento sessuale degli italiani dal titolo Comizi d’amore e dal reportage Sopralluoghi in Palestina per il Vangelo secondo Matteo girato nelle zone dove inizialmente si pensava di girare il “Vangelo”. Il film “Il Vangelo secondo Matteo”, che va inserito nel contesto autobiografico che Pasolini andava delineando parallelamente alla propria produzione poetica, ebbe accoglienze contrastanti. Il Vangelo vuole essere una immensa metafora del sottoproletariato mondiale e anche momento di verifica delle potenzialità liberatorie del Cristianesimo evangelico da contrapporre alla chiesa come struttura. Girato nei luoghi dell’Italia meridionale che più ricordano la Palestina e i luoghi della nascita di Gesù Cristo. Le gravine imperiose di Matera, di Ginosa e di Massafra in provincia di Taranto, si prestarono magnificamente a tale progetto. Del 1966 è il film Uccellacci e uccellini che testimonia in modo assai umano la sfiducia nelle possibilità guaritrici e modificatrici dell’ideologia. I protagonisti sono due spaesati sottoproletari e un corvo la cui altisonante verbosità coincide con la sua sterilità politica. Nello stesso anno Pasolini produce l’episodio de Le streghe (La Terra vista dalla Luna), che è una specie di appendice al film precedente. Nel 1967 viene realizzato Edipo re che contiene chiari riferimenti autobiografici e rappresentazione dell’ennesima traumatica diversità che non ha nemmeno la fede nell’utopia storica. Edipo, cieco e vagante attraverso gli aridi deserti della preistoria fino alle periferie delle attuali città, si dissolverà alla fine nella dimensione naturale. Sempre nel 1967 esce il film Che cosa sono le nuvole?, episodio di Capriccio all’italiana. Nel 1968 esce Teorema che vuole rappresentare l’annullamento e la disgregazione dell’esistenza borghese nel caso essa volesse vivere al di là della ritualità quotidiana. Nel 1969 esce Porcile che è la parallela narrazione di due diversità: quella dell’antropofago barbarico che verrà giustiziato dal potere, e quello del timido Julian, discendente da una ricca dinastia di industriali, votato al suicidio, cosciente della sua estraneità tanto al progetto paterno quanto alla contestazione giovanile, che verrà divorato dai porci allevati dalla famiglia. Il film porta agli estremi la visione pasoliniana del terrorismo lucidamente autodistruttivo degli emarginati e si avvale, sul piano espressivo, di elementi poetici, sarcastici ed epigrammatici. Questo tema verrà ripreso in Medea (1969), che è preceduto dalla realizzazione de La sequenza del fiore di carta, episodio del film Amore e rabbia. Il film, che non si arresta alla constatazione dell’inferno contemporaneo, si articola nella dialettica tra la spontaneità primitiva e la tecnocratica razionalità, mettendo in risalto che, dove non si arresta la prima, erompe la vendetta nella sanguinaria ed equa necessità. L’opera seguente sarà la cosiddetta “trilogia della vita” composta dal Il Decameron del 1971, da I racconti di Canterbury del 1972 e da Il fiore delle mille e una notte del 1974. In essi Pasolini rappresenta il progetto di dipingere l’infanzia dell’umanità, l’innocenza dei popoli, il trionfo delle istanze erotiche e naturali dell’uomo. La trilogia segnò anche, in linea di massima, l’inizio di quella commedia sexy, a sfondo erotico, che fece fortuna negli anni ’70 e nel successivo decennio. Ma già nel 1974, alla presentazione del progetto del prossimo film, Pasolini dichiarava di sentirsi spaventato dal fatto di aver contribuito al processo di falsa liberalizzazione della sessualità e lo rinnegherà in modo provocatorio nel film Salò o le 120 giornate di Sodoma che, uscito postumo nel 1976 e sottoposto a una fortissima censura, sarà l’ultimo contributo di Pasolini al cinema.

2.2 I migliori film del “genio cinematografico” di Pasolini

Accattone (1961 ): il primo titolo della sua filmografia. Ambientato nelle profondità della periferia romana, senza l’artificialità di ricostruzioni scenografiche o di illuminazioni particolari, è interpretato da attori non professionisti. L’uso della macchina da presa è piuttosto primitivo, con movimenti di macchina improvvisi, spontanei, a volte brutali. La casa dove fu girato il film si trova in via Ettore Giovenale, 101 nel quartiere Pigneto di Roma. È stata restaurata ma ci sono delle targhe in ricordo del grandissimo regista.

La ricotta (1962): nel 1962 partecipa, insieme a Roberto Rossellini, Jean-Luc Godard e Ugo Gregoretti alla realizzazione di Ro.Go.Pa.G., girando l’episodio intitolato La ricotta. Il mediometraggio si concentra sul problema della visione del sacro, costruendo una sorta di parodia della Passione, per cui all’epoca fu giudicato blasfemo. Il pensiero di Pasolini è espresso da Orson Welles, che interpreta il regista di un immaginario film sulla crocefissione, soprattutto nelle risposte alle quattro domande postegli da un verosimile giornalista. Nell’opera realizzata in bianco e nero, campeggiano tuttavia le rappresentazioni a colori delle due Deposizioni del Cristo di Rosso Fiorentino e Pontormo. Pasolini, rifacendosi al Manierismo, realizza un neorealismo manieristico, in cui la realtà si libra nel visionario, grazie all’abbondanza, a tutto campo, delle citazioni, spesso in contrasto fra loro, secondo la teoria degli ossimori, che il regista vuol realizzare: citazioni musicali (l’Aria Sempre libera degg’io dalla Traviata di Giuseppe Verdi, suonata dagli strumenti musicali scordati di una banda, è il motivo principale che contrasta col twist; e con le musiche di Bach, Scarlatti, Gluck), letterarie (Donna de Paradiso di Jacopone da Todi), filosofiche (Il Capitale di Karl Marx), autocitazioni (Mamma Roma) cinematografiche (Federico Fellini, Orson Welles stesso, le accelerazioni delle immagini alla maniera chapliniana). A seguito di un processo con cui venne condannato, Pasolini fu costretto a modificare alcune parti e alcuni testi del film, tra cui la didascalia iniziale e la frase finale pronunciata da Orson Welles, che in originale suonava «crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione»

Il Vangelo secondo Matteo (1964): Matera, l’Aspromonte, le splendide gravine carsiche di Massafra e Ginosa, l’Italia del Sud, povera e agreste: questa l’ambientazione scelta da Pasolini per la più fedele trasposizione cinematografica di un testo evangelico. Il film venne applaudito e premiato dagli ambienti ufficiali della Chiesa cattolica. Il Vangelo secondo Matteo (1964), un bianco e nero semplice e aspro, di rara suggestione.

Teorema (1968): pensato come un poema in versi poi diventato film, “Teorema” è il tentativo di dimostrare “l’incapacità dell’uomo moderno di percepire, ascoltare, assorbire e vivere il verbo sacro”: mescolando suggestioni bibliche a influenze psicoanalitiche, Pasolini eleva l’erotismo a “tangibile e quasi fisico segno rivoluzionario”, di fronte al quale la borghesia non può che rivelarsi per quello che veramente è e perdersi o rinnegarsi, mentre il sottoproletario trova la forza per salvarsi offrendosi al mondo. Ma lo schematismo ideologico e una notevole componente di autocompiaciuto odio-amore, non impediscono che il film sia una delle opere più originali dell’autore, ricco di momenti di intensa e poetica tensione. Musa ispiratrice di Pasolini, la sempre elegante e splendida Silvana Mangano.

Il Decameron (1971) “secondo Pasolini”: tratto da una selezione di novelle del capolavoro di Giovanni Boccaccio, la rilettura di Pasolini mira ad esaltarne il lato comico-popolare ( da cui la scelta dell’ambientazione napoletana e dell’uso del dialetto ) e a far emergere la naturale fisicità e la sessualità gioiosa insite nella grande tradizione della narrativa popolare. Un piccolo-grande riassunto della poetica cinematografica di Pasolini, volta a rimarcare l’intento progressista delle sue opere cinematografiche, nel tentativo di superare gli arcaici tabù, in direzione di una “liberalizzazione sessuale” post sessantottina.

Gli ultimi film ( 1968-75 ): per i suoi ultimi film Pasolini si ispirò a lavori letterari: la tragedia greca, interpretata con rara sensibilità di cineasta, nell’Edipo re (da Sofocle, 1967) e in Medea (da Euripide, 1970), quindi, per la sua “trilogia della vita”, con il già citato Decameron, di Giovanni Boccaccio (del 1970), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (del 1974). Il suo ultimo film, Salò o le centoventi giornate di Sodoma (girato nel 1975 e ispirato ad un romanzo del Marchese de Sade), sarà criticato aspramente da molti per le sue scene a contenuto fortemente sadomasochistiche.

Totò, Ninetto e la Magnani: per uno dei suoi ultimi film, Uccellacci e uccellini, sorta di favola fra il mistico ed il picaresco, Pasolini aveva voluto ricorrere ad uno dei maggiori attori della commedia all’italiana, Totò, affiancato – nella circostanza – dall’attore prediletto del regista, Ninetto Davoli. Secondo molti critici fu l’unica occasione per Totò di dimostrare le sue reali qualità anche come attore drammatico. Mamma Roma, con una straordinaria Anna Magnani, storia di una prostituta e di suo figlio, fu all’epoca come un pugno nello stomaco per il comune senso del pudore. Spesso i critici si sono interrogati sul fatto se Pasolini non abbia inserito volutamente nei suoi lavori particolari crudi proprio per cercare di catturare maggiormente l’attenzione degli spettatori: sta di fatto che il complesso della sua opera – letteraria e di regista – è uno dei maggiori contributi al cambiamento del modo comune di pensare ed un esempio, mai più ripetuto, di poesia applicata alla realtà più crudele. In particolare il rapporto con il grande Totò, che si esplicò in un film lungo e due film brevi, fu un rapporto molto umano, una grande e profonda amicizia, resa dalle parole di Pasolini, che riassumono l’essenza di un legame forte e sincero:

“Io ho scelto Totò per la sua natura, diciamo così, doppia. Da una parte c’è il sottoproletario napoletano, e dall’altra c’è il puro e semplice clown, il burattino snodato, l’uomo dei lazzi e degli sberleffi. Queste due caratteristiche insieme mi servivano a formare il mio personaggio. Ed è per questo che l’ho usato. Nei miei film Totò non si presenta come piccolo-borghese, ma come proletario o sottoproletario, cioè come lavoratore. E il suo non accorgersi della storia è il non accorgersi della storia dell’uomo innocente, non del piccolo borghese che non vuole accorgersene per i suoi miseri interessi personali e sociali”.

2.3 Comicità breugheliana, grottesca, senza allegria: l’essenza comica di Pasolini

Fin dal suo esordio dietro la macchina da presa, con quell’Accattone (1961), interpretato dagli stessi ragazzi di borgata che in precedenza gli avevano fornito il materiale per alcuni romanzi, Pasolini aveva rivelato un talento cinematografico di grande originalità, che le prove successive non avrebbero fatto che confermare. Un talento che non sfolgorò mai particolarmente nel genere comico, al quale per la verità si avvicinò, quando lo fece in maniera sui generis. L’iperrealismo di Accattone e del successivo Mamma Roma comporta la presenza di elementi di commedia, anche se il tono fondamentale dei film è quello drammatico-elegiaco, sottolineato da solenni corali di Bach. Specialmente analizzando Accattone, la grama esistenza del protagonista, fino alla banale morte che la conclude ( le ultime parole di Accattone prima di spirare sono “mo sto bene”) è tuttavia costellata di episodi anche buffi, come quello della pentola di spaghetti che gli affamati eroi prima si procurano, quindi trovano il modo di farsi cuocere, e finalmente, dopo essersi sbarazzati con uno stratagemma degli amici con cui avrebbero dovuto dividerla, rinunciano a mangiare. Si tratta di una comicità breugheliana, di tipo sempre grottesco, senza vera allegria. In Accattone gli attori non recitano, vivono, “sono” i personaggi; la macchina li registra, li spia. Ciò suscita negli spettatori l’imbarazzo di chi origlia, non la risata liberatoria di chi accetta una proposta di complicità. In seguito, quando fece della comicità dichiarata, Pasolini rivelò un senso dell’umorismo particolare e inusuale. Riesce difficile immaginare, per esempio, che qualcuno abbia mai riso al suo primo film, o meglio, episodio, intenzionalmente brillante, La ricotta, in Ro.Go.Pa.G.(1963). L’aneddoto si svolge su di un set cinematografico dove si gira la crocefissione di Gesù, e un povero generico affamato muore per un’indigestione della ricotta su cui si è avventato. Seguirono nel corso degli anni, un film intero e due episodi, che, anche se a stento, possono essere etichettati come “brillanti”, o comunque con elementi in grado di scatenare qualche timida risata: Uccellacci e uccellini (1966), La Terra vista dalla Luna nelle Streghe (1967), e Che cosa sono le nuvole in Capriccio all’italiana (1968), nei quali Pasolini impiegò Totò. In nessuno dei tre casi, beninteso, Pasolini volle fare un film “di Totò”; affascinato dalla cultura popolare italiana, soprattutto da quella meridionale, delle aree depresse, l’intellettuale si servì della presenza dell’inimitabile clown con tutto il bagaglio che questa si portava dietro, per illustrare un discorso proprio. Il caso più massiccio è quello di Uccellacci e uccellini, lungo apologo forse sulla crisi del marxismo, più probabilmente sul contrasto tra coscienza tradizionale e mutamenti storici nella società, che ha la forma del road movie, ossia del viaggio, attraverso il tempo non meno che lo spazio. Totò è un padre di borgata ( elemento che si ripete nelle opere cinematografiche del regista ) che si aggira con il figlio ( Ninetto Davoli, ragazzo di borgata autentico ) parlando con lui della vita e della morte. Davanti agli occhi dei due Innocenti, anche come cognome, sfilano varie scene, compreso un doppio suicidio, dal senso non sempre chiaro. A un certo punto arriva un corvo parlante, proveniente dal paese di Ideologia ( “figlio del dubbio e della coscienza”), che racconta un apologo nell’apologo: qui Totò diventa il medievale frate Ciccillo, che con frate Ninetto predica il Vangelo ai falchi e quindi ai passeri, senza peraltro evitare che i primi si avventino sui secondi. Perplessi, una volta tornati al giorno d’oggi i due si comportano di volta in volta da falchi e da passeri ( prepotenti con una contadina più disgraziata di loro, proni davanti ad un arrogante signore ). L’autenticità di Davoli e la grazia quasi soprannaturale di Totò conferiscono al film autorevolezza e in qualche caso, suggestione quasi mistica. Meno ancora si ride nell’astruso, visivamente elegante piccolo episodio delle Streghe, con le nozze di un Totò sottoproletario, e di una Mangano sordomuta dai capelli verdi, che muore e torna come fantasma a proteggere il marito e il figlio Ninetto Davoli. Anche Che cosa sono le nuvole è elegante da vedere; e anche qui da ridere c’è ben poco, anche se lo squarcio di poesia della scena finale, quella in cui le due marionette di Totò-Iago e di Davoli- il Moro, ormai gettati nella discarica, fissano il cielo e Totò ammaliato dalle nuvole esclama “Oh, straziante, meravigliosa bellezza del creato”. Il saluto del grande attore napoletano al pubblico, alle scene e alla vita: di lì a poco Totò morirà e il film uscirà postumo.

2.4 Premi e riconoscimenti cinematografici

Nonostante Pasolini, con la sua poetica unica nel panorama cinematografico mondiale, abbia diviso la critica tra chi lo riteneva un genio sui generis, e chi un mediocre regista prestato al cinema, ottenne numerosi riconoscimenti nazionali ed internazionali per il suo “personalissimo” contributo offerto alla settima arte.

  • Festival di Cannes 1958 al miglior soggetto originale per Giovani maritidi Mauro Bolognini
    •Nastro d’Argento 1960 al miglior soggetto originale per La notte bravadi Mauro Bolognini
    •Mostra internazionale di Venezia – 1964: Leone d’argento – Gran premio della giuria e premio O.C.I.C. (Office Chatolique International du Cinéma) per Il vangelo secondo Matteo
    •Nastro d’Argento al miglior regista 1965 per Il vangelo secondo Matteo
    •Nastro d’Argento 1967 al miglior soggetto originale per Uccellacci e uccellini
    •Mostra internazionale di Venezia – 1968 premio O.C.I.C. (Office Chatolique International du Cinéma) per Teorema
    •Festival internazionale del cinema di Berlino: Orso d’argento 1971 per Il Decameron
    •Festival internazionale del cinema di Berlino: Orso d’oro 1972 per I racconti di Canterbury
    •Festival di Cannes 1974: Grand Prix Speciale della Giuria per Il fiore delle Mille e una notte
    •Festival di Venezia 2015: Miglior film restaurato per Salò o le 120 giornate di Sodoma
  1. La morte di Pier Paolo Pasolini: ancora oggi avvolta nel mistero

« La sua fine è stata al tempo stesso simile alla sua opera e dissimile da lui. Simile perché egli ne aveva già descritto, nella sua opera, le modalità squallide e atroci, dissimile perché egli non era uno dei suoi personaggi, bensì una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile. »
(Alberto Moravia)

Nella notte tra il 1º e il 2 novembre 1975 Pasolini fu ucciso in maniera brutale: percosso e travolto dalla sua stessa auto sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia, località del Comune di Roma. Il cadavere massacrato venne ritrovato da una donna alle 6 e 30 circa. Sarà l’amico Ninetto Davoli a riconoscerlo. L’omicidio fu commesso da un “ragazzo di vita”, Pino Pelosi di Guidonia, di diciassette anni, già noto alla polizia come ladro di auto, fermato la notte stessa alla guida dell’auto del Pasolini. Pelosi affermò di essere stato avvicinato da Pasolini nelle vicinanze della Stazione Termini, presso il Bar Gambrinus di Piazza dei Cinquecento, e da questi invitato sulla sua vettura, (un’Alfa Romeo 2000 GT Veloce) dietro la promessa di un compenso in denaro. Dopo una cena offerta dallo scrittore, nella trattoria Biondo Tevere nei pressi della Basilica di San Paolo, i due si diressero alla periferia di Ostia. La tragedia, secondo la sentenza, scaturì a seguito di una lite per pretese sessuali di Pasolini alle quali Pelosi era riluttante, degenerata in un alterco fuori dalla vettura. Il giovane venne minacciato con un bastone del quale si impadronì per percuotere Pasolini fino a farlo stramazzare al suolo, gravemente ferito ma ancora vivo. Quindi Pelosi salì a bordo dell’auto dello scrittore e travolse più volte con le ruote il corpo, sfondandogli la cassa toracica e provocandone la morte. Pelosi venne condannato in primo grado per omicidio volontario in concorso con ignoti e il 4 dicembre del 1976 con la sentenza della Corte d’Appello, pur confermando la condanna dell’unico imputato, riformava parzialmente la sentenza di primo grado escludendo ogni riferimento al concorso di altre persone nell’omicidio.

3.1 Le teorie del complotto

Alcuni intellettuali e amici dello scrittore ritengono che le circostanze della morte di Pasolini non siano ancora state chiarite. Contraddizioni nelle deposizioni rese dall’omicida, un “chiacchierato” intervento dei servizi segreti durante le indagini e alcuni passaggi a vuoto o poco coerenti riscontrati negli atti processuali, sono fattori che – secondo alcuni tra gli amici più intimi di Pasolini (particolarmente Laura Betti) – lasciano aperte le porte a dubbi. Queste persone ritengono che il Pelosi fosse troppo minuto per sopraffare Pasolini il quale era fisicamente forte ed agile e praticava sport ad un livello quasi agonistico, senza recare sul proprio corpo segni della lotta ingaggiata e neppure tracce di sangue sui vestiti. A bordo dell’autovettura furono rinvenuti alcuni indumenti, tra cui un maglione ed un plantare, di una taglia che non era né di Pasolini né del Pelosi; la giovane cugina di Pasolini, con lui convivente e che aveva personalmente lavato e riordinato l’automobile il giorno prima smentì di aver mai notato quegli oggetti prima. Subito dopo l’arresto, il Pelosi chiese insistentemente ai carabinieri di portargli un anello di scarso valore a suo dire sfilatosi durante la lotta ed effettivamente rinvenuto vicino al cadavere di Pasolini nonché un pacchetto di sigarette ed un accendino da lui lasciati dentro il cruscotto dell’autovettura dove invece non furono rinvenuti. Fu appurato che l’anello di cui parlava il Pelosi gli andava stretto, tanto che al momento dell’arresto il giovane aveva ancora il segno dello stesso sul dito al quale abitualmente lo indossava, e pertanto i sostenitori del complotto ritengono impossibile che il monile gli fosse scivolato nel corso della colluttazione. I proprietari della trattoria Biondo Tevere, di cui Pasolini era cliente abituale, furono sentiti pochissime ore dopo l’identificazione del corpo ed entrambi descrissero il giovane con cui Pasolini s’era presentato la sera del delitto come “alto almeno 1,70 e forse di più, con capelli lunghi e biondi, pettinati all’indietro”, ovvero completamente diverso da Pelosi, che era assai più basso, tarchiato e con folti capelli neri e ricci, secondo la moda dell’epoca. Due settimane dopo il delitto, apparve un’inchiesta su L’Europeo con un articolo di Oriana Fallaci, che ipotizzava una premeditazione e il concorso di almeno altre due persone. Un giornalista dell’Europeo ebbe alcuni colloqui con un ragazzo che, tra molte esitazioni ed alcuni momenti di isteria, avrebbe dichiarato di aver fatto parte del gruppo che aveva massacrato il poeta; il giovane tuttavia, dopo una iniziale collaborazione avrebbe rifiutato di proseguire oltre o fornire altre informazioni, dileguandosi dopo aver lasciato intendere di rischiare la vita confessando la propria partecipazione e concludendo che non sarebbe stata intenzione del gruppo uccidere il poeta, ma che si sarebbe trattato di una rapina degenerata, concludendo “je volevamo solà er portafoglio” (“volevamo rubargli il portafoglio). Diversi abitanti delle numerose abitazioni abusive esistenti in via dell’Idroscalo confidarono in seguito alla stampa di aver sentito urla concitate e rumori – indizio della presenza di ben più di due persone sul posto – ed invocazioni disperate di aiuto da parte del Pasolini la notte del delitto, ma senza che alcuno fosse intervenuto in suo soccorso. Sembra che la zona non fosse ignota al Pasolini, che già varie volte vi si era recato con altri partner e addirittura, stando a quanto la Fallaci affermò, avrebbe talvolta affittato per qualche ora una delle abitazioni del posto per trascorrervi momenti di intimità. Enzo Siciliano, amico dello scrittore, ha scritto una sua biografia, nella quale sostiene che il racconto dell’imputato presentava delle falle, fra l’altro, perché il bastone di legno – in realtà, una tavoletta di legno utilizzata precariamente per indicare il numero civico e l’abitazione di una delle baracche – a lui sembrava marcita per l’umidità e troppo deteriorata per costituire l’arma contundente che aveva causato le gravissime ferite riscontrate sul cadavere del poeta e rimarcando l’impossibilità, per un giovane minuto come il Pelosi, di sopraffare un uomo agile e forte come Pasolini senza presentare né tracce della presunta lotta, né macchie di sangue sulla sua persona o sugli indumenti. Il film Pasolini, un delitto italiano, di Marco Tullio Giordana, uscito nel ventennale del delitto, è sceneggiato come un’inchiesta e arriva alla conclusione che Pelosi non fosse solo. Lo stesso Giordana però ha precisato, in un’intervista al Corriere della sera, che non intendeva sostenere a tutti i costi la matrice politica nel delitto. Ha dichiarato inoltre di non escludere altre possibilità, per esempio quella di un incontro omosessuale di gruppo degenerato in violenza. Quasi a suffragare i dubbi degli scettici, Pelosi, dopo aver mantenuto invariata la sua assunzione di colpevolezza per trent’anni, fino al maggio 2005, a sorpresa, nel corso di un’intervista televisiva, ha affermato di non essere l’esecutore materiale del delitto di Pier Paolo Pasolini, e ha dichiarato che l’omicidio era stato commesso da altre tre persone, giunte su una autovettura targata Catania, che a suo dire parlavano con accento “calabrese o siciliano” e, durante il massacro, avrebbero ripetutamente inveito contro il poeta gridandogli ” jarrusu” (termine gergale siciliano, utilizzato in senso dispregiativo nei confronti degli omosessuali). Ed infatti, era giunta a suo tempo alle autorità una lettera anonima in cui si affermava che, la sera della morte di Pasolini, la sua auto era stata seguita da una Fiat 1300 targata Catania di cui erano indicate le prime quattro cifre, ma nessuno si preoccupò mai di effettuare una verifica presso il Pubblico Registro Automobilistico (PRA). Ha poi fatto i nomi dei suoi presunti complici solo in un’intervista del 12 settembre 2008 pubblicata sul saggio d’inchiesta di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza “Profondo Nero”. Ha aggiunto inoltre di aver celato questa rivelazione per timore di mettere a rischio l’incolumità della propria famiglia ma di sentirsi adesso libero di poter parlare, dopo la morte dei genitori. È da notare che, poco dopo la morte di Pasolini, un agente di polizia che operava sotto copertura in una indagine nel mondo della malavita romana avrebbe avuto modo di raccogliere le confidenze di due giovanissimi fratelli di origine catanese, che si sarebbero vantati con lui di aver partecipato al massacro unitamente ad altri. I due giovani conoscevano il Pelosi, del quale erano vicini di casa e frequentavano un centro ricreativo che il giovane reo confesso aveva a sua volta frequentato e che era ritenuto dalla polizia una “copertura” per attività di gruppi dell’estrema destra. Tuttavia, le indagini non furono mai approfondite per mancanza di prove; entrambi i giovani morirono all’inizio degli anni Ottanta. Sentiti in merito, i due fratelli, appena quindicenni, non negarono di aver fatto una simile confidenza, ma sostennero di aver compreso che il loro interlocutore era un agente sotto copertura e di aver voluto prenderlo in giro, millantando fatti inverosimili. Il loro alibi per quella notte risultò comunque assai dubbio. A trent’anni dalla morte, assieme alla ritrattazione del Pelosi, è emersa la testimonianza di Sergio Citti, amico e collega di Pasolini, su una sparizione di copie dell’ultimo film Salò e su un eventuale incontro con dei malavitosi per trattare la restituzione. Sergio Citti morì per cause naturali alcune settimane dopo. Un’ipotesi molto più inquietante lo collega invece alla “lotta di potere” che prendeva forma in quegli anni nel settore petrolchimico, tra Eni e Montedison, tra Enrico Mattei e Eugenio Cefis. Pasolini, infatti, si interessò al ruolo svolto da Cefis nella storia e nella politica italiana: facendone uno dei due personaggi “chiave”, assieme a Mattei, di Petrolio, il romanzo-inchiesta (uscito postumo nel 1992) al quale stava lavorando poco prima della morte. Pasolini ipotizzò, basandosi su varie fonti, che Cefis alias Troya (l’alias romanzesco di Petrolio) avesse avuto un qualche ruolo nello stragismo italiano legato al petrolio e alle trame internazionali. Secondo autori recenti e secondo alcune ipotesi suffragate da vari elementi, fu proprio per questa indagine che Pasolini fu ucciso. Altri collegano la morte di Pasolini alle sue accuse a importanti politici di governo di collusione con le stragi della strategia della tensione. Walter Veltroni il 22 marzo 2010 ha scritto al Ministro della Giustizia Angelino Alfano una lettera aperta, pubblicata sul Corriere della sera, chiedendogli la riapertura del caso sottolineando che Pasolini è morto negli anni ’70, “anni cui si facevano stragi e si ordivano trame”. Il 1º aprile del 2010, l’avvocato Stefano Maccioni e la criminologa Simona Ruffini hanno raccolto la dichiarazione di un nuovo testimone che ha aperto indagini che sono state definitivamente archiviate all’inizio del 2015. Le nuove indagini non hanno portato infatti a nulla di nuovo rispetto alla sentenza, se non ad alcune tracce di Dna sui vestiti dello scrittore. Tracce però di impossibile attribuzione e impossibili da collocare temporalmente, se durante il delitto o prima di questo. È in corso, dall’ottobre 2015, la raccolta delle firme per istituire una commissione parlamentare incaricata di riaprire le indagini sulla morte di Pasolini.

Fatti certi a confutare questa tesi o a renderla attendibile al giorno d’oggi non ce ne sono, molti sono di certo i lati oscuri della vicenda della morte di Pasolini, e forse piena luce a questo tragico e brutale omicidio non se ne farà mai. A prescindere dai fatti e dalle reali responsabilità che hanno condotto alla sua morte, la fine di Pasolini sembra essere emblematica, al punto che la sua morte è stata paragonata a quella di Caravaggio:

« Secondo me c’è una forte affinità fra la fine di Pasolini e la fine di Caravaggio, perché in tutt’e due mi sembra che questa fine sia stata inventata, sceneggiata, diretta e interpretata da loro stessi. »
(Federico Zeri: storico e critico d’arte )

N.B. Avrei potuto inserire qualche immagine del ritrovamento del cadavere del grande regista e intellettuale, ma ho optato per non inserirle, sia perché le immagini avrebbero potuto urtare la sensibilità del lettore, sia per rispetto alla memoria di Pier Paolo Pasolini, uomo prima che artista.

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