Parresia e querele
di Helena Janakzec
Oggi a Roma si terrà la prima udienza del processo contro Roberto Saviano, scaturito da una denuncia di Giorgia Meloni che, diventata premier, non ha pensato di ritirarla.
Tale decisione gli è stata chiesta in una lettera firmata dal presidente del PEN International, come chiaro segnale che la Presidente del Consiglio intenda tutelare la libertà di espressione. Libertà democratica che, in Italia, non è già messa bene. Intimidazioni mafiose a parte (quelle per cui Saviano è sotto scorta), lo strumento di pressione più ricorrente passa per le vie giudiziarie. Le querele “temerarie” fioccano soprattutto contro giornalisti che non hanno le risorse per difendersi pari a quelle di Saviano, ma che, benché a volte quasi invisibili, fanno parte di un sistema che garantisce la libertà di informare e di esprimere opinioni.
Da qui discende una riflessione su cosa è diventata la giustizia nel nostro Paese. Da un lato ha preso piede un giustizialismo populista – di destra, ma non solo – che si inventa sempre nuovi reati che ingolfano i tribunali già terribilmente malfunzionanti e riempiono le carceri tragicamente sovraffollate. I tempi della giustizia sono così lunghi che i cittadini spesso rinunciano al diritto di fare causa, le imprese straniere a investire in Italia.
Perciò muovere causa è spesso diventato qualcosa d’altro, uno strumento di potere, per chi può permettersi di usarlo. In più, non succede nulla persino quando c’è una sentenza definitiva, come quella ottenuta, tra enormi bastoni tra le ruote, da Cécile Kyenge nei confronti di Roberto Calderoli. Il giudice ha stabilito che chiamare “orango” l’ex ministra costituiva in effetti “diffamazione aggravata dall’odio razziale”. Ma oggi Calderoli è di nuovo ministro e nessuno se ne scandalizza: anche perché condanne di altro tipo, e ancora più gravi, non sono ostacolo a una carriera politica o istituzionale. L’essenza del problema riguarda dunque la cultura politica italiana, non la giustizia. Solo che la giustizia ne risulta svilita e compromessa.
A giugno è invece stato sospeso a Milano il processo per diffamazione intentato da Carola Rackete contro Matteo Salvini. “Dovrà essere il Senato a dire se le frasi pronunciate dal leader leghista tra giugno e luglio 2019 sono o meno coperte da «insindacabilità» relativa al suo ruolo di senatore e ministro dell’Interno. «Quella sbruffoncella della comandante», «criminale tedesca», «ricca e viziata comunista» alcune delle frasi usate da Salvini in diretta social. «Esprimiamo il nostro radicale dissenso per questa decisione. Quelle espressioni nulla avevano a che vedere col ruolo di parlamentare di Salvini, per modi e contenuti», ha detto Alessandro Gamberini, legale di parte civile di Rackete. «Non sono frasi che attengono a un discorso di politica, anche del Ministero dell’epoca, ma veri e propri attacchi alla persona», aveva sostenuto la pm Giancarla Serafini nella scorsa udienza.” riassume il manifesto. La questione dunque non è la natura diffamatoria degli attacchi alla persona di Rackete, ma proprio il fatto che le abbia esternate un politico.
Infine c’è la questione dell’annosa campagna di diffamazione contro le ONG del mare, una campagna che ha avuto un grandissimo successo. Risale a ieri l’ultima fantasiosa ingiuria che non mi sogno di riportare.
Infatti l’esito peggiore è che, malgrado il ripetersi costante delle sentenze di piena assoluzione, una larga parte dell’opinione pubblica si sia convinta che i soccorritori volontari siano in combutta con gli scafisti e trafficanti, che la presenza di 4 navi umanitarie nel Mediterraneo costituisca un “pull factor” e altre simili affermazioni prive di fondamento. Basta ripeterle per anni, a martello, perché entrando nelle orecchie vengano credute: magari non del tutto, ma secondo quel pericoloso scetticismo che si dice “magari c’è qualcosa di vero”.
Il processo a Saviano parte dalla denuncia della frase “bastardi, come avete potuto” pronunciata in tv a commento di un video che mostrava un salvataggio difficile dove un bambino era annegato cadendo dalle braccia della madre. Però, per tutto quanto ho cercato di esporre sopra, assume una dimensione politica che oltrepassa quella giudiziaria.
