Orazio Boccia

di Matteo Cosenza

CIAO ORAZIO
Un periodo neanche troppo breve di collaborazione, frequentazione e amicizia, di lui ho ricordi nitidi e intensi, e non poteva essere diversamente con una personalità come la sua. La vita di Orazio Boccia sembra presa pari pari da un romanzo di Dickens, quasi una favola, lunga novant’anni, premiata da risultati straordinari, quasi impensabili se si tiene a mente la sua infanzia, il suo passaggio decisivo in un orfanotrofio che significativamente si chiamava “serraglio”. Un bambino, poi un ragazzo che nella sua tumultuosa crescita non si arrende alle difficoltà, all’emarginazione, e mette in campo un’intelligenza strabiliante e un’irriducibile caparbietà. Capisce subito che la vita non gli avrebbe regalato niente se lui non si fosse preso tutto il possibile, anche rubare un’arte a chi incrociava sul suo cammino.
Quando, nel 1974 l’ho conosciuto, già imprenditore di successo, non immaginavo neanche lontanamente i suoi trascorsi. In quel di Fuorni, al confine tra Pontecagnano e Salerno, aveva realizzato un sogno: una tipografia eccellente dove uno come me aveva la sensazione di trovarsi in paradiso e si perdeva tra il passato (la macchina per stampare che foglio dopo foglio con una rotazione di 180 gradi trasformava la massa di caratteri tipografici assemblati uno per uno in manifesti), il presente (il piombo fuso che usciva dalle linotype in righe di giornale dure ma ancora bollenti) e il futuro ( una rotativa che sfornava il nostro amato quindicinale, la Voce della Campania).
Con Orazio trascorrevo dai tre ai quattro giorni ogni due settimane. Il lunedì mattina gli portavo una prima tranche di articoli che sarebbero stati composti dalla squadra di Orazio Corrado in strisce di piombo pronte per essere assemblate nelle gabbie delle pagine. Dopo tornavo a Napoli in redazione e insieme a una fantastica redazione si lavorava fino a notte per completare la raccolta e sistemazione di articoli e foto. Il martedì mattina (meglio dire all’alba), di nuovo a Salerno per il rush finale che durava due giorni intensi spesso con prolungamento notturno il mercoledì (qualche volta fino all’alba) quando le lastre erano pronte e assemblate per essere inserite sui rulli della rotativa.
Nei due giorni venivano ad aiutarmi per la correzione delle bozze (un lavoro meticoloso che richiedeva cultura, intelligenza e ottima vista) due collaboratori della “Voce” (ne ricordo qualcuno e mi scuso con quelli che dimentico: Enzo Ciaccio, Procolo Mirabella , Rocco Di Blasi, Giorgio Ettari, Marino Marquardt , Giuseppe Improta , Luigi Vicinanza, Antonio Polito, Ubaldo Grimaldi) mentre trovavo sempre in fabbrica Ugo Di Pace, salernitano, fotografo e giornalista (la foto con Orazio a me molto cara è sua).
Orazio, che controllava tutto, uomini e cose, era l’interfaccia del giornale, in quel momento il suo migliore e peggiore cliente: migliore perché ormai aveva acquisito un prestigio crescente e peggiore perché la cooperativa nata per iniziativa e sostegno del Pci campano e del segretario Abdon Alinovi onorava il contratto in maniera molto disinvolta. Lui, il tipografo, ovviamente “pretendeva” di essere pagato, noi ma soprattutto il factotum organizzativo e amministrativo, l’indimenticabile Gennaro Pinto lo blandiva. Ricordo che una volta Boccia venne a Napoli intimando: o mi pagate o non stampo più il giornale. Gennaro rispose con uno dei suoi capolavori: «Orazio, è già tardi, andiamo a mangiare una cosa e poi parliamo». Noi tre andammo a Edenlandia al ristorante del parco giochi di Fuorigrotta e dopo finimmo sulle giostre come tre bambini; ricordo le risate quando salimmo sulle “zattere” e facemmo tutto il percorso attenti a non bagnarci. Tornammo al giornale, in via Cervantes 55 – la “Voce” era al dodicesimo piano -, ci salutammo con sorrisi e abbracci, Orazio innestò la prima e partì ma dopo qualche metro frenò bruscamente e torno indietro: «Ma stiamo scherzando, io sono venuto per i soldi e voi mi portate sulle giostre!». E Gennaro con un sorriso: «Ci sentiamo tra qualche giorno e ne riparliamo».
Io sono convinto che l’esperienza straordinaria della “Voce della Campania” sarebbe finita presto se non ci fossero stati Ennio Simeone , che l’aveva fondata, Gennaro Pinto che le dava a suo modo ossigeno e Orazio Boccia che la stampava. Il fatto è che lui, Orazio, amava il suo mestiere di imprenditore e l’azienda che aveva creato e fatto crescere. Direi, se il termine non fosse troppo azzardato, che era, per come io l’ho conosciuto, un imprenditore militante, orgoglioso dei prodotti che uscivano allo stabilimento specie se prestigiosi come a quel tempo fu la nostra rivista. E mi ha fatto sempre pensare che i prodotti tipografici, dai manifesti ai volantini, dagli opuscoli ai giornali, dalle riviste ai libri, siano un buon risultato se si incontrano validi editori, tipografi, giornalisti e scrittori. Nonostante tutto, nonostante l’evoluzione tecnologica, i computer e la crisi della carta stampata. Ciao, carissimo Orazio.

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