Oppenheimer

- 1952 FILE PHOTO - The mushroom cloud of the first test of a hydrogen bomb, "Ivy Mike", as photographed on Enewetak, an atoll in the Pacific Ocean, in 1952, by a member of the United States Air Force's Lookout Mountain 1352d Photographic Squadron. The top secret film studio, then located in Hollywood, California, produced thousands of classified films for the Department of Defence and the Atomic Energy Commission beginning in 1947. A 50th anniversary tribute to these "Atomic Cinematographers" and their
di Peter Freeman 

Non sono in grado di dire se “Oppenheimer” è in termini assoluti un capolavoro ma certo è un film forte, potente, importante, da qualunque parte lo si affronti. A me è piaciuto moltissimo. Ho letto molte delle cose scritte sul film. La questione etica, morale, filosofica, legata alla costruzione della Bomba e al suo impiego, ma anche quella storica, si intrecciano continuamente. In questo caso – è inevitabile – tutto si tiene e perciò il rischio di confusione è grande.

Dico subito che le categorie dell’”orrore” e la mostrificazione di Oppenheimer (e non soltanto lui) che spesso incontro leggendo alcuni commenti non mi convincono. C’è un prima e un dopo Los Alamos, e c’è un prima e un dopo Hiroshima e Nagasaki, su questo non ci piove. Il Trinity Test certifica l’avvento di una nuova era (una potenza distruttiva mai vista prima e inimmaginabile per la maggior parte dell’umanità); il bombardamento di Hiroshima del 6 agosto sancisce che quella potenza è utilizzabile, è stata utilizzata con tutte le conseguenze del caso, e che potrebbe essere utilizzata ancora. Da quel momento, a cominciare dall’idea di futuro, tutto cambia: il mondo può essere distrutto, l’umanità cancellata o condannata per sempre a una mera testimonianza del proprio passato. E a segnare questo passaggio non sono la malvagità o il malanimo o una volontà intesa al male ma il progredire della scienza, gli studi di Albert Einstein, la meccanica quantistica, la scoperta dei neutroni e la fissione dell’atomo. Scienza, appunto. Non è “neutra”, la scienza (che scoperta!) ma non sono gli studi sull’atomo ad aver scatenato il secondo conflitto mondiale. Ma come sempre è accaduto, la guerra indirizza e potenzia la ricerca scientifica, ne è un formidabile acceleratore e moltiplicatore: i progressi e gli investimenti nel settore della chimica negli anni della Grande Guerra (servivano esplosivi, gas, nuovi materiali) sono un esempio, così come i progressi nel campo dell’aeronautica e della navigazione (i sommergibili non li hanno sviluppati per il trasporto civile).

Tutto vero, però c’è la Bomba, un evento indicibile, a marcare un prima e un dopo e con questo ci dobbiamo confrontare, di questo ci parla il film di Nolan.

La divisione che alcuni hanno fatto tra scienziati “buoni” e “cattivi” (Einstein buono perché pacifista, Teller cattivo, Oppenheimer abbastanza cattivo e sicuramente ipocrita) non mi convince. Forse il contesto storico può aiutare.

Sappiamo che la ricerca teorica nel campo dell’atomo agli inizi degli anni Trenta subisce una forte accelerazione. Vi lavorano gli italiani, i tedeschi, i britannici, gli americani. Non mi dilungo sui passaggi e indico soltanto alcune tappe: teorizzazione della reazione a catena (Szilard, 1933) scoperta degli isotopi radioattivi (1934, Fermi), fissione nucleare dell’uranio (Hahn e Strassmann, 1938). Siamo ancora nel campo della fisica teoria: si studiano e si comprendono i fenomeni, li si analizzano, ma siamo lungi da una messa in pratica.

Nota bene: ovunque si studi l’atomo spuntano i nomi di scienziati ebrei. Albert Einstein, Emilio Segrè, Bruno Pontecorvo, Lise Meitner e Otto Frisch, Eugene Wigner, Leo Szilard, Wilhelm Traube. E ovviamente Robert Oppenheimer. Molti di loro per sfuggire al nazismo riparerà in Gran Bretagna o in America.

Sappiamo anche che Szilard, Teller e Wigner sono i più preoccupati che i tedeschi possano applicare i risultati degli studi sulla fissione nel campo bellico e sono vieppiù allarmati che il Reich nazista faccia incetta di uranio presso le miniere del Congo Belga. Si rivolgono ad Albert Einstein, la più autorevole delle voci, perché si faccia interprete dei loro timori ormai condivisi da una parte della comunità scientifica: siamo nel luglio del 1939. La lettera di Einstein a F. D. Roosevelt (ne scriverà in tutto quattro, l’ultima nel marzo del 1945) ha una lunga gestazione e arriva al presidente americano l’11 ottobre, con l’Europa ormai in guerra. Nella lettera firmata da Einstein (e probabilmente redatta da Szilard) si chiede di accelerare gli esperimenti sull’uranio, di garantirne l’approvvigionamento, di coinvolgere anche i laboratori industriali, di aumentare il budget. La lettera è convincente: si costituisce il Comitato consultivo per l’uranio (ne fanno parte militari e scienziati) che svolge la sua prima riunione il 21 ottobre. Di fatto è l’avvio del Progetto Manhattan. Insomma, Einstein non chiede di utilizzare la Bomba ma di fare quanto è necessario per dotarsene; sarà risolutamente contrario a farne uso.

Prima considerazione: inizialmente la lettera di Albert Einstein doveva essere indirizzata all’ambasciatore del Belgio negli Stati Uniti. Un po’ poco, diciamo. Meglio alzare il tiro: nessuno sapeva esattamente a che punto fosse il progetto nucleare tedesco ma al tempo stesso nessuno voleva farsi trovare impreparato. La risposta non poteva dunque essere un semplice blocco alle esportazioni di uranio dalle miniere del Congo: bisognava fare incetta del metallo e sviluppare un proprio progetto finalizzato all’impiego bellico dell’energia atomica. Siamo, ripeto, negli ultimi mesi del 1939. A metà del 1940 il clima è di evidente scetticismo: a) si ritiene che non sia possibile provocare la reazione a catena; b) si stima che siano necessarie tonnellate di uranio, una quantità non facilmente accumulabile (in verità Otto Frisch dimostrerà che per costruire un ordigno di inimmaginabile potenza è sufficiente circa un chilo di uranio arricchito. Entrambi i problemi troveranno una soluzione ma non prima dell’estate del 1941, a poche settimane da Pearl Harbour. Nella primavera del 1942 il progetto nucleare statunitense passa dalla fase di ricerca a quella operativa e Oppenheimer viene chiamato a guidarlo. Ci vorranno tre anni e un investimento “monstre” di più di due miliardi di dollari per arrivare al “Trinity Test” del 16 luglio 1945 ad Alamogordo.

In quelle stesse ore si sta svolgendo la conferenza di Potsdam (si concluderà il 2 agosto). La guerra in Europa è ormai finita: Hitler è morto, la Germania si è arresa, le immagini dei campi di sterminio stanno circolando. A margine della conferenza Stalin viene informato (senza indugiare in troppi particolari) da Truman che gli Stati Uniti hanno sperimentato con successo una bomba di straordinaria potenza. E’ probabile che il dittatore sovietico sappia qualcosa del progetto atomico statunitense ma non abbastanza. E c’è la cosiddetta “Dichiarazione di Potsdam” nella quale si dettano le condizioni per la resa del Giappone: l’alternativa è la “rapida e totale distruzione”.

La Dichiarazione è firmata da Truman, da Churchill e da Chang Kai-Shek, non da Stalin perché al momento Unione Sovietica e Giappone non sono tra loro in guerra. E’ pur vero che a Jalta i sovietici si sono impegnati a dichiarare guerra al Giappone entro tre mesi dalla sconfitta dalla Germania ma quei termini non sono ancora scaduti. Ci sono dei piani militari, che prevedono l’invasione delle truppe sovietiche della Manciuria; e c’è la guerra che gli americani stanno conducendo nel Pacifico, una guerra che sta richiedendo un tributo di sangue altissimo. A Iwo Jima e a Okinawa la resistenza dell’esercito giapponese è stata feroce, al limite e oltre il fanatismo.

L’invasione del Giappone si annuncia tutt’altro che facile. Nel predisporre i piani dell’Operazione Downfall (che dovrebbe prendere il via il 1° novembre 1945) gli stati maggiori hanno stimato tempi insopportabilmente lunghi (si parla di una conquista ultimata nella tarda primavera del 1946) e perdite pesantissime. Si preme dunque sull’Unione Sovietica per il rispetto degli impegni assunti a Jalta ma al tempo stesso se ne teme la presenza sul suolo giapponese: la lezione di Pearl Harbour è servita a chiarire quanto cruciale sia lo scacchiere del Pacifico e quanto strategico sia un Giappone sotto il controllo americano nel dopoguerra. L’Impero nipponico è di fatto sconfitto (la sua fine è cominciata alle Midway nell’agosto del 1942) ma può ancora fare molto male.

Ecco, è probabile che tutte queste considerazioni abbiano avuto il loro peso nella decisione di sganciare la bomba su Hiroshima; e in questo senso è vero che il 6 agosto 1945 è l’atto finale della Seconda guerra mondiale ma anche il primo della Guerra Fredda. Per la cronaca l’8 agosto i sovietici dichiarano guerra al Giappone e il 9 gli Stati Uniti sganciano la seconda bomba su Nagasaki. In Manciuria si combatte fino al 30 agosto perché una parte delle truppe giapponesi non sono al corrente delle due bombe e del messaggio di resa dell’imperatore. La resa ufficiale viene firmata il 2 settembre.

E gli scienziati? Era possibile evitare di costruire la bomba atomica, fare il test di Alamogordo e infine bombardare il Giappone? La risposta è no. Non era minimamente realistico pensare che un’impresa di quel genere, con una spesa di due miliardi di dollari e uno sforzo produttivo senza precedenti, si fermasse a un passo dal traguardo, che non si costruisse la bomba e non se ne provassero gli effetti nel deserto del Nuovo Messico. Sicuramente non lo volevano i militari e nemmeno gli scienziati impegnati nel progetto. In Europa la guerra era finita, si festeggiava, e per qualsiasi cittadino europeo il Giappone e il Pacifico erano una realtà remota, impalpabile. Per gli americani no: lì si continuava a combattere e a morire, le battaglie erano autentiche carneficine e nessuno capiva come e quando sarebbe finito, non fino a quel 6 agosto 1945, all’apocalisse su Hiroshima.

Per gli scienziati impegnati a Los Alamos il principale interrogativo era “funziona?”. Il Trinity dimostrò che funzionava e che quella cosa era davvero mostruosa, terrificante, definitiva. Sarebbe bastata, la Bomba, a evitare altre guerre? Penso che tutti gli scienziati lo desiderassero – non riesco a immaginarmeli diversamente. Sappiamo che le guerre non sono state evitate, tempo cinque anni e in Corea fu un’altra carneficina su larga scala e forse Douglas McArthur sollecitò l’uso della Bomba contro nordcoreani e cinesi (di sicuro lo destituirono). E sappiamo che di bombe atomiche ne furono sganciate ancora un bel po’, per sperimentarle, in atolli e altre zone del globo deserte (di umani, non di altre specie viventi. L’acronimo MAD (mutual assured destruction) e la cosiddetta “deterrenza” sono state per decenni (e lo sono ancora adesso) la nostra inquietante polizza contro la fine del mondo, del resto le oltre 68 mila testate censite nel 1986 questo dicevano: non provateci nemmeno.

Posso pensare in tutto questo che Robert Oppenheimer fosse un mostro, un cinico, un ipocrita che si fa sbeffeggiare da Truman (“Sono io, non tu, ad aver preso la decisione”) in quanto piagnucoloso tardivo? Io non ci riesco, eppure so che quel 6 agosto 1945 fu compiuto un crimine contro l’umanità, scatenandole contro delle forze immani che solo la scienza è stata capace di liberare. E sì, immagino che tra le recinzioni e i laboratori di Los Alamos l’hybris dei costruttori di bombe e distruttori di mondi fosse difficile da tenere a bada. Orgoglio, tracotanza, volontà di potenza, chiamiamola come ci pare. Eppure.

Questo mi è piaciuto di “Oppenheimer”: non la fa facile, anche se ci sono le figure disgustose, quelli sballottati dalla Storia, le ombre del maccartismo (tornato di moda), il rapporto degli intellettuali con il comunismo negli anni tra le due guerre e tanto altro. Non è un bio-pic, non è moraleggiante, non ci fa nessuna spiega. Bello.

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