Oppenheimer, ops ops.
di Daniele Gabrieli
Una cosa che non m’è piaciuta di Oppenheimer è Oppenheimer.
Per tutta la prima metà del film l’eroe eponimo non ha particolari remore morali legate al suo lavoro, anzi sembra entusiasta di quello che fa:
“Vuoi costruire una bomba atomica?”
“Pronti!”
“Va’ che nel frattempo la Germania s’è arresa!”
“Vabe’, andiamo avanti lo stesso!”
“Va’ che il Ministro della Guerra ha delle perplessità!”
“Bon, vado a descrivergli con minuzia di particolari come la vista di una colonna di fuoco alta centinaia di metri spezzerà il morale dei giapponesi!”
Poi sganciano la bomba su Hiroshima e all’improvviso l’interruttore della coscienza si sposta da off a on: sensi di colpa, allucinazioni a sfondo apocalittico e così via.
L’assenza di ogni soluzione di continuità tra i due estremi fa suonare meccanica l’evoluzione del personaggio, come se dovesse tormentarsi solo perché così c’è scritto sulla sceneggiatura.
In generale, non è che della figura di Oppenheimer si capisca molto: sentiamo ripetere il suo nome decine di volte ma lui resta un’entità vaga, ossimoricamente oscillante tra il freak genialoide con la testa tra le nuvole e l’istrione carismatico trascinatore di masse.
Non aiuta il fatto che l’attore protagonista abbia senza dubbio una faccia che buca lo schermo, con quelle guance scavate da teschio (“Sono diventato Morte…”) e quello sguardo spiritato, ma non brilli per espressività.
Questo in un film che per altri versi m’è pure piaciuto (le sequenze visionarie, la cronaca della corsa alla bomba…).