Lodo Moro, sì

di Vladimiro Satta 

Recensione al volume di Valentine LOMELLINI Il “lodo Moro”. Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986, Laterza, Roma-Bari 2021

Il cosiddetto “lodo Moro”, un accordo clandestino in materia di sicurezza stretto nei primi anni Settanta del Novecento dall’Italia con i principali artefici del terrorismo mediorientale di allora, in base al quale questi ultimi si sarebbero astenuti da attacchi contro il nostro Paese in cambio di impunità, libertà di movimento e traffici anche illeciti, è un oggetto di studio che, per sua natura, è rimasto lungamente in ombra ma che in anni recenti si sta progressivamente imponendo all’attenzione. Il presente volume di Valentine Lomellini reca un importante contributo alla conoscenza dell’argomento, soprattutto grazie alle ampie ricerche presso archivi italiani e stranieri effettuate dall’A., la quale è un’affermata specialista di storia delle relazioni internazionali. Invero, nel panorama degli studi sul “lodo Moro” non erano mancati lavori preziosi ma essi per lo più erano sparsi all’interno di volumi collettanei[1] o che riguardano pure altri argomenti[2], in accurati articoli di stampa e interviste a personaggi qualificati, sicché il libro di Lomellini, monografico, colma una parziale lacuna e probabilmente inaugura una nuova fase, più avanzata, degli studi storici in materia.

Avendo presente il pur frammentario insieme delle conoscenze pregresse, l’opera risulta meno innovativa di come talvolta viene presentata e, spesso, ha piuttosto il merito di fornire conferme che diventano consolidamenti definitivi. Non di meno, il volume è dotato di elementi di originalità nei contenuti e nell’impostazione. Il testo, infatti, accresce sensibilmente il bagaglio informativo disponibile, si sforza di comporre le risultanze in un quadro organico e di allargare la visuale sotto due aspetti: uno tematico, l’altro comparativo.

Sotto l’aspetto tematico, l’A. congiunge la questione della sicurezza italiana rispetto al terrorismo arabo con la politica mediorientale italiana nel suo complesso (pp. 122-123 e passim). Vedremo meglio e discuteremo più avanti questo nesso. Si sottolinea fin da adesso, però, che nell’esposizione di Lomellini il più importante attore di parte araba non è la galassia palestinese, come di solito si ritiene, bensì è la Libia di Gheddafi. La Libia fu uno “Stato-canaglia”, infatti, e questo significa che anch’essa era un soggetto da prendere in considerazione ai fini della tutela della sicurezza italiana (pp. 60, 67, 71).

Sotto l’aspetto comparativo Lomellini ricorda che il problema della sicurezza, divenuto molto grave già tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta per effetto della decisione del Fronte popolare di Liberazione della Palestina (e di altre frange estremiste palestinesi) di compiere attentati in Europa e forzare in tal modo i governi del Vecchio Continente ad occuparsi del conflitto arabo-israeliano, toccava anche altri Stati, e che l’Italia non fu l’unica a gestirlo mediante accordi sottobanco con chi era pericoloso (pp. 18, 19, 52-57 e passim). Queste considerazioni comparative in verità non sono nuove, poiché tutti gli studiosi ne convengono e semmai si dividono nel giudizio su quanti e quali Stati ricorsero a lodi analoghi e quali no, ciascuno Stato agendo riservatamente, incurante di critiche e sospetti da parte degli altri (in proposito, nel libro c’è un gioiello, a pag. 176; si riporta che nel 1974, cioè dopo la stipulazione dei patti tra Italia e palestinesi, il ministro della Giustizia Mario Zagari, in un’occasione ufficiale internazionale, <<richiamò l’attenzione sulla necessità della prevenzione e della risoluzione del problema della impunità dei terroristi>>, i quali avrebbero desistito <<solo quando>> avessero capito <<di non poter più trovare rifugio in un Paese o nell’altro>>. Eppure Zagari era uno che sicuramente sapeva del “lodo Moro”, come l’A. dimostra a pag. 65!). La comunanza del problema della sicurezza, ad ogni modo, non significò concertazione europea delle soluzioni da adottare, tranne che per un poco di coordinamento tra i rispettivi apparati repressivi (pp. 7, 69-70). Il tendenziale inserimento delle mosse italiane per proteggersi dal terrorismo nel contesto, più ampio, della pluralità di interessi che il nostro Paese tutelava nei suoi rapporti con la Libia e con gli altri vicini arabi (pp. 122-123) -interessi che a volte erano esclusivamente nostri- accentua l’impressione che l’Italia si regolò autonomamente.

Di certo, la quantità e qualità della documentazione addotta da Lomellini rappresenta un salto di qualità e consente di affermare oltre ogni ragionevole dubbio che il “lodo Moro” esistette davvero, nonostante i dinieghi vecchi e nuovi da parte di qualcuno che ammettendolo si sarebbe trovato in difficoltà e la persistenza di margini di incertezza riguardo ai contorni delle intese tra l’Italia e i mediorientali, acuita dal fatto che finora non è mai emerso un testo scritto e molti indizi anzi facciano ritenere che l’accordo fu verbale. L’abbondante materiale offerto dall’A., peraltro, suggerisce l’opportunità di qualche messa a punto.

Innanzi tutto, è bene chiarire che il “lodo Moro” era illegale dal punto di vista giuridico, pur essendo ispirato dalla Ragion di Stato. In nome della Ragione di Stato l’incolumità dei cittadini del nostro Paese -e, nell’accezione proposta da Lomellini, pure gli approvvigionamenti di petrolio e le commesse industriali in Libia- valevano bene l’impunità dei responsabili di atti di terrorismo e traffico di armi. Giuridicamente, il “lodo” calpestava il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. L’illegalità del “lodo”, addirittura, è la pietra angolare sulla cui base, tra il 2014 e il 2015, i magistrati impegnati nei processi per la strage di Bologna teorizzarono l’impossibilità che siffatto accordo potesse avere avuto luogo:

<<un patto internazionale stipulato da soggetti privi di rappresentanza democratica e senza la ratifica parlamentare non avrebbe potuto dissuadere nessun pubblico ufficiale dalla denuncia dei delitti accertati sul territorio nazionale e non avrebbe potuto indurre alcun ufficiale o agente di polizia giudiziaria ad omettere gli atti del loro pubblico ufficio>>.

Non è stato da meno l’estensore della sentenza di primo grado emessa nel 2021 contro il neofascista Gilberto Cavallini -sempre per la strage di Bologna- il quale a pag. 1796 ha enunciato la serie di violazioni della Costituzione di cui si sarebbero macchiati coloro che, in ipotesi, si fossero comportati in base al “lodo Moro” e poi, a pag. 1828, ha sostenuto che  <<l’esistenza del lodo Moro non è mai stata provata, ma è sempre rimasta al rango sostanziale di voci correnti>> e dunque inutilizzabili.

Di fronte alle prove dell’effettiva esistenza ed efficacia dell’accordo per lunghi anni, spuntate da più parti e oggi definitivamente asseverate dal lavoro di Lomellini, i ragionamenti alla Don Ferrante e le liquidazioni del “lodo Moro” come se si trattasse di mere <<voci correnti>> non reggono, né tanto meno possono essere presentate alla stregua di confutazioni delle tesi che individuano un plausibile movente della strage di Bologna nella temporanea  rottura dei patti da parte italiana tra novembre 1979 e 2 agosto 1980. Proprio la forza del movente ipotizzato, anzi, è uno dei fattori che militano a favore della pista palestinese rispetto a quella imboccata dai giudici di primo grado del processo Cavallini e del c.d. “processo mandanti”, i quali invece vedono nella strage di Bologna un inconsulto assalto contro la Repubblica sferrato da un mestatore che nel sistema italiano prosperava, Licio Gelli, insieme al suo sodale Umberto Ortolani, ad un senatore del gruppo parlamentare Democrazia Nazionale aspirante a diventare alleato di governo della DC, Mario Tedeschi, e al Direttore della Polizia Postale e di Frontiera, Federico Umberto D’Amato.

Beninteso, l’illegalità del “lodo Moro” va tenuta presente per capire l’oscurità che ha avvolto il patto sin dalle origini, e non per fare scelte ormai anacronistiche tra Ragione di Stato e diritto dei cittadini italiani alla verità e alla giustizia. Il conflitto tra interessi rilevantissimi, anzi, ha naturalmente generato commenti di segno opposto, pur essendo constatabile a occhio e croce una prevalenza di elogi e consensi rispetto a critiche e dissensi. Di conseguenza, l’insinuazione che battezzare il lodo con il nome di Moro sia stata una malizia atta a <<sfregiare l’immagine>> dello statista in questione (p. 132) è infondata e persino ribaltabile[3].

La questione dell’attribuzione del lodo a Moro oppure no, peraltro, non si esaurisce qui poiché, nella visione di Lomellini, è motivo per sollevare un interrogativo di grande portata: è corretto parlare di “lodo Moro” o invece si dovrebbe parlare di “lodo Italia”?

Numerosi passaggi del libro attestano che; 1) Moro fu l’ideatore di veri e propri accordi che a partire dall’ultimo scorcio del 1973 sistematizzassero e stabilizzassero una politica di do ut des la quale in precedenza era stata episodica, occasionale (pp. 49, 58, 64, 87, 120 e passim); 2) Moro mantenne sempre questa linea, appellandosi al senso di responsabilità degli ambienti politici e istituzionali affinché si astenessero dal “disturbare il manovratore” (p. 77-78); 3) Moro si richiamò al “lodo” quale modello da seguire nel periodo in cui fu prigioniero delle Brigate Rosse; 4) molti personaggi, sia di parte italiana che di parte araba, hanno individuato in Moro l’artefice del “lodo” e hanno testimoniato che lui, finché fu in vita, ebbe un ruolo primario di garanzia degli accordi. Uscendo per un attimo dal libro, si tenga presente che il primo ad associare pubblicamente il nome di Moro agli accordi segreti tra Italia e organizzazioni palestinesi non fu Cossiga, -come pare ritenere Lomellini, sulla scia di Nando dalla Chiesa- bensì il cronista di <<Paese Sera>> Andrea Santini, nel titolo e nel testo di un articolo pubblicato sulla prima pagina del suo quotidiano il 12 gennaio 1980. <<Paese Sera>> era la testata sulla quale scriveva Rita Porena e comparivano interviste ai dirigenti palestinesi: di “lodo Moro” se ne intendevano.

Tornando al libro, viceversa ci sono chiari indizi di divisioni in campo italiano circa l’atteggiamento da tenere nei confronti dei combattenti palestinesi: su tutti, la “guerra dei due Stefani” (il colonnello Stefano Giovannone e l’ambasciatore Stefano D’Andrea, della quale il volume non parla), il fatto che fino all’episodio di Ortona di fine 1979 il Presidente del Consiglio Cossiga, già Ministro dell’Interno per anni, non fosse stato ufficialmente informato del “lodo” da chi di dovere (altra circostanza assente nel volume) e il dibattito parlamentare del 1977 nel quale il sottosegretario Dell’Andro, un fedele moroteo, negò categoricamente l’esistenza di accordi segreti per la scarcerazione di terroristi mediorientali subodorata da interroganti che facevano parte della maggioranza su cui si basava il governo Andreotti della “non sfiducia”, il liberale Costa e il socialdemocratico Preti. Nonostante questo, l’A. reputa che bisognerebbe parlare di “lodo Italia” e non più di “lodo Moro”, in quanto la strada aperta dal Ministro degli Esteri nel 1973 allo scopo di prevenire attentati di matrice mediorientale venne percorsa anche dall’intera classe politica, fin verso metà degli anni Ottanta.

A mio avviso, dare al lodo il nome di Moro non significa disconoscere gli apporti forniti da altri, così come avere dato alla legge 180/1978 in materia di trattamenti sanitari delle malattie mentali il nome dello psichiatra Basaglia non significa che quest’ultimo avesse introdotto e implementato tale norma da solo, senza il concorso del legislatore e delle istituzioni. E’ indiscutibile, in ogni caso, che il “lodo” sia stato in armonia con gli indirizzi fondamentali della politica mediterranea italiana, nonché con la pressante esigenza di approvvigionamenti energetici sopravvenuta con lo shock petrolifero internazionale nel 1973 e dunque quasi coeva della comparsa del terrorismo mediorientale sul territorio europeo iniziata poco tempo prima. Il “lodo” e la strategia mediterranea dell’Italia, del resto, erano nelle stesse mani, quelle di Aldo Moro, alternativamente Ministro degli Esteri o capo del Governo quasi ininterrottamente dal 1969 al 1976 (e dal 1976 alla morte il 9 maggio 1978 leader del partito di maggioranza relativa, la DC). E’ intuitivo che il “lodo” con le organizzazioni palestinesi finalizzato alla sicurezza e la collaborazione con alcuni Stati arabi, soprattutto la Libia, fossero più che compatibili tra loro, ovvero si rafforzassero reciprocamente: il “lodo” metteva l’Italia in buona luce agli occhi dei Paesi arabi che appoggiavano i palestinesi e, vicendevolmente gli intensi e buoni rapporti di affari tra Italia e Libia inducevano i palestinesi a vedere di buon occhio il partner di Gheddafi. La linea di Moro dava i suoi frutti ad entrambi i livelli ed era logico, perciò, che i contemporanei e gli immediati successori dello statista ucciso nel 1978 la seguissero. In questo senso, effettivamente si può e si deve parlare di politica dell’Italia, e non del solo Moro. Tuttavia, resta il fatto che il “lodo” per la sicurezza e gli indirizzi generali erano due cose diverse, seppure pienamente compatibili.

E’ provato che l’Italia si accordò con i palestinesi, in due tempi -perché il primo accordo, raggiunto nell’autunno 1973, era stato stretto solo con una parte di loro, e ce ne volle un secondo esteso ad altri, fatto dopo la strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973- e che il FPLP era tra i contraenti. Non è altrettanto dimostrato che con la Libia sia stata fatta la stessa cosa sullo stesso punto, il terrorismo, e lo è ancora meno che il modus vivendi tra Italia e FPLP passasse attraverso Gheddafi, sebbene queste siano le tesi di Lomellini (pp. 67, 71, 123). A distanza ormai di decenni, mentre gli allora dirigenti dello FPLP hanno confermato in parecchie occasioni che c’era stato un patto segreto tra loro e l’Italia, nessun esponente libico ha detto altrettanto per quanto concerneva il suo Paese. Inoltre il palestinese Bassam Abu Sharif ha dichiarato in un’intervista (menzionata a pag. 168) che Gheddafi, quando fu informato dallo FPLP dell’intesa tra palestinesi e italiani, commentò che le questioni inerenti a tale “lodo” andavano tenute distinto da quelle aperte tra Tripoli e Roma (riferendosi al supplemento di risarcimenti di danni per il passato coloniale preteso dal leader libico). E quando l’arresto in relazione ai missili di Ortona del numero 1 del FPLP in Italia, Abu Anzeh Saleh, mise radicalmente in discussione il “lodo”, fu l’organizzazione di Habbash a protestare riservatamente e poi persino pubblicamente con l’Italia e a minacciarla ripetutamente, non la Libia, che tacque.

Come si è accennato, la Libia era uno “Stato-canaglia”. Lo era sin dagli anni Settanta, durante i quali per appoggiare le frange più estreme palestinesi non si fece scrupolo di avere parte attiva in alcune vicende sanguinose, tra cui l’attentato di Fiumicino di fine 1973, e lo divenne ancora di più negli anni Ottanta (pp. 98, 109 e passim). Bisogna però puntualizzare che la Libia, la quale si candidava a punto di riferimento delle fazioni arabe contrarie ad accomodamenti con Israele e gli USA, era spesso d’accordo con il FPLP e lo sosteneva con aiuti concreti, ma non lo dirigeva. Inoltre, ai fini del discorso sul “lodo Moro”, tra i palestinesi e la Libia vi era un’importante differenza. Per i palestinesi, il terrore era l’unica risorsa che si potesse mettere sul piatto della bilancia dei rapporti con l’Italia. Per la Libia era diverso: la Libia aveva petrolio, lavori per le imprese italiane, una partecipazione azionaria nella FIAT (a partire da fine 1976), potere sulla comunità dei nostri connazionali che vivevano sul suo territorio, una guardia costiera in grado di intervenire a piacimento nei confronti dei pescherecci siciliani. Per comprendere la grande accondiscendenza delle autorità italiane verso la Libia, dunque, non c’è bisogno di ipotizzare accordi in funzione anti-terroristica della cui esistenza, invero, finora non si hanno evidenze inequivocabili. L’ottica comparatistica giustamente cara all’A. torna effettivamente utile anche a questo proposito, perché ci permette di notare che alcuni dei Paesi europei i quali ricorsero a “lodi” simili al “lodo Moro” per pararsi da attentati non avevano ambizioni mediterranee, né popolose comunità stanziate oltremare, né prospettive di penetrazione affaristica in Libia o altri Stati arabi paragonabili a quelle italiane, quindi affrontarono la questione terroristica indipendentemente o quasi da considerazioni di natura geopolitica, economica ed energetica. Del resto, qualificati storici italiani che hanno studiato a fondo i rapporti tra l’Italia e la Libia di Gheddafi, da Angelo Del Boca ad Arturo Varvelli, ci hanno offerto ricostruzioni -incluse le spiegazioni dell’atteggiamento italiano- nelle quali non compaiono patti tra i due Paesi finalizzati alla prevenzione di atti violenti sul suolo italiano. Lomellini stessa, allorché a pag. 75 scrive che fu <<la crisi energetica ad imporre una svolta importante nelle relazioni di due paesi>>, automaticamente relega il tema della sicurezza ai margini.

L’impressionante sequenza di gesti e di attenzioni da parte delle autorità italiane per compiacere le controparti libiche documentata da Lomellini, che iniziò nel 1974, non porta a tracce di accordi sulla questione del terrorismo, ma ad assordanti silenzi opportunistici, osservati dai nostri rappresentanti. Gli italiani tacevano allo scopo di non irritare i libici, della cui amicizia il nostro Paese aveva necessità, nonostante che ritenessero il regime di Tripoli coinvolto davvero nel terrorismo internazionale (pp. 74-81 e passim). La controprova della differenza tra un accordo e un silenzio di convenienza si vede bene confrontando gli arresti conseguenti al tentato omicidio di Al Huni nel 1976 con l’arresto di Abu Anzeh Saleh causato dall’episodio di Ortona avvenuto tre anni dopo. Per i maldestri sicari di Gheddafi che non erano riusciti ad uccidere la vittima e si erano fatti prendere, fu freneticamente cercata -e trovata- una soluzione ad hoc (pp. 88-94), segno che le parti non avevano preventivamente concordato meccanismi per evenienze del genere; invece quando fu arrestato e mandato a processo l’esponente dello FPLP, la sua organizzazione si appellò ad un accordo vigente. Il giudice Mastelloni ha persino descritto le procedure predisposte a favore di terroristi dello FPLP e fatto nomi di italiani -tutti personaggi vicini a Moro- che avrebbero provveduto ad avviarle in caso di necessità.

L’Italia, insomma, con gli accordi del 1973 blandiva le organizzazioni combattenti palestinesi, mentre nei rapporti di affari e nelle sedi diplomatiche blandiva la Libia. In entrambi i casi, pagava qualche prezzo in cambio di ciò che otteneva. Il vulnus sopportato dall’Italia, peraltro, era diverso a seconda che si trattasse di terrorismo palestinese o di “canagliate” libiche. Nei confronti dei palestinesi, si abdicava a verità e giustizia, ma si metteva un freno ad attacchi futuri; nei riguardi di Gheddafi, invece, si rinunciava pure al freno e si sceglieva il silenzio al posto di un baratto, lasciando alla Libia mano libera di versare sangue anche in Italia, cosa che il regime di Tripoli fece ai danni dei dissidenti ospitati da Roma. In fondo la Libia, per tutto il tempo in cui l’Italia la tenne in palma di mano e minimizzò le colpe che gli americani addossavano a Gheddafi, non ebbe motivo di fare un secondo attentato di Fiumicino, né un lancio di missili su Lampedusa, sicché dal punto di vista italiano Tripoli era sì pericolosa per la sicurezza, ma fino ad un certo punto. In teoria, se attentati da parte della Libia contro l’Italia erano improbabili, un apposito “lodo” tra i due Paesi sarebbe stato superfluo.

Di fatto, dopo l’attentato del 17 dicembre 1973 a Fiumicino i terroristi palestinesi risparmiarono l’Italia fino almeno al 1979 e, per Lomellini, ininterrottamente fino al 1985, anno del dirottamento della nave Achille Lauro, ad ottobre, nel corso del quale i criminali uccisero il cittadino statunitense Leon Klinghoffer, ebreo, nonché di una nuova strage all’aeroporto di Fiumicino (e contemporaneamente all’aeroporto di Vienna), il 27 dicembre. La divergenza di opinioni circa la cronologia è dovuta al fatto che alcuni, tra i quali io stesso, pensano che la pace si interruppe tra l’episodio di Ortona del novembre 1979 e la bomba del agosto 1980 a Bologna[4], e subito dopo tornò grazie ad una marcia indietro italiana per proseguire fino al 1985, ma altri tra cui Lomellini non credono che la matrice dell’attentato nella città emiliana fosse palestinese (pp.95-97) e perciò sostengono che prima del 1985 il lodo e la protezione pattuita mai vennero meno. Il regime di Tripoli, dal canto suo, nella primavera 1980 fece una mattanza di dissidenti sul suolo italiano, e non certo per ritorsione nei confronti del nostro Paese. Tra le vittime di Gheddafi ci fu Lahderi, già prezioso collaboratore dei servizi segreti italiani. Lahderi, infatti, spargendo false voci sui capi delle Brigate Rosse in ambienti palestinesi, aveva contribuito a scongiurare una possibile saldatura tra terrorismo nazionale e terrorismo internazionale, molto temuta dalle autorità italiane (preoccupazione documentata pure da Lomellini, pp. 11, 102, 115). Tale pericolo si stava materializzando nel 1979, però, ed è ragionevole supporre che questo fu uno dei motivi principali -se non il principale in assoluto- che indussero l’Italia a tentare di sbarazzarsi del “lodo Moro” resistendo alle pretese di fare prosciogliere Saleh e restituire l’armamentario sequestrato avanzate dallo FPLP. Gheddafi, a differenza delle organizzazioni palestinesi, prese sempre le distanze dalle Brigate Rosse (pp. 115 e 185).

Il volume non prende in considerazione l’ardita ipotesi dello studioso Miguel Gotor secondo cui Gheddafi, essendosi convinto che la sera di Ustica, il 27 giugno 1980, <i servizi italiani, lungi dal proteggerlo (…) avevano in realtà favorito le condizioni per una sua eliminazione, mancata per un soffio>>, avrebbe reagito a Bologna, sicché <<i veri committenti>> della strage del 2 agosto <<andavano individuati nella Libia>> (Il filo libico che lega Ustica e Bologna>>, <<L’Espresso>>, fascicolo del 19 luglio 2020, pp. 64-67).

 

A metà anni Ottanta, si dissolse lo scenario in cui avevano messo radici tanto il “lodo” con i palestinesi, quanto i rapporti preferenziali tra Italia e Libia. La duplice grave violazione del patto di non belligeranza con i palestinesi rappresentata dal dirottamento della nave Achille Lauro e dal secondo attacco di Fiumicino divenne una rottura definitiva, e i missili lanciati nel 1986 da Gheddafi sull’isola di Lampedusa a seguito del raid occidentale del 14 aprile 1986 sulla Libia compromisero irreversibilmente i rapporti tra Roma e il regime di Tripoli. Nell’interpretazione di Lomellini, le violenze furono dovute <<con tutta probabilità>> all’ingresso della Siria in veste di sostenitrice del gruppo capeggiato da Abu Nidal (p.111), estremista che si contrapponeva ad Arafat. L’A. ricorda altresì, opportunamente, che al di là delle rivalità tra capi palestinesi ormai si profilava un altro cambiamento, epocale: <<si stagliava all’orizzonte (…) un altro tipo di terrorismo, di matrice religiosa>> (p. 105). Ella non si sofferma invece sulle ragioni del gesto anti-italiano di Gheddafi, che pur era stato ancora tutelato dalle nostre autorità persino in questo estremo frangente, visto che esse avevano negato agli Usa le basi e il diritto di sorvolo e che lo avevano avvertito nell’imminenza dell’attacco aereo.

Per concludere si augura a Lomellini, la quale ha preannunciato la sua intenzione di proseguire le ricerche in questo campo, di potersi un giorno avvalere della documentazione almeno di parte italiana che, verosimilmente, getterebbe ulteriore luce sui rapporti tra Italia e organizzazioni palestinesi negli anni Settanta: le carte del colonnello Stefano Giovannone, sulle quali decenni addietro venne posto il segreto di Stato e che oggi, essendo scaduti i termini temporali di quel vincolo, sono classificate a livello <<segretissimo>>, che è il massimo dopo il segreto di Stato. L’importanza delle carte di Giovannone è attestata indirettamente dal diniego opposto dalla Presidenza del Consiglio nell’estate 2020 alla richiesta di averne copia che era stata presentata da una delle associazioni di familiari di vittime di Ustica, da indiscrezioni giornalistiche sugli atti in questione, dalle sia pur abbottonate dichiarazioni di parlamentari della ex-Commissione Moro-2 i quali hanno avuto la possibilità di visionarle, dalla piccola parte di quei documenti che, per errore, anni fa era confluita in fascicoli non segretati e perciò è ormai pubblica. La Presidenza del Consiglio, infatti, nel 2020 scrisse che la divulgazione delle carte di Giovannone avrebbe tuttora recato <<grave pregiudizio>> agli interessi della Repubblica; i parlamentari convennero sulla estrema rilevanza dei documenti e, nel caso di Gero Grassi, si spinsero a dire che essi vanno in direzione diversa dalle sentenze; le indiscrezioni giornalistiche sono impressionanti, al pari dei pochi appunti dell’ufficiale del SISMI già noti. Nessuno intende nuocere agli interessi supremi della Repubblica, ma forse andrebbe cercato un minimo di bilanciamento che, senza divulgare quelle scottanti carte, sia però sufficiente ad evitare che le sentenze prossime venture siano viziate.

Oggi il “lodo Moro” non vige più, ma il dilemma tra Ragione di Stato e istanze di verità e giustizia continua ad incombere su di noi.

[1] Ad esempio, il corposo saggio di Giacomo Pacini Il lodo Moro. L’Italia e la politica mediterranea pubblicato in M. CALIGIURI (a cura di), Moro e l’intelligence, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018, oppure The Lodo Moro. Italy and the Palestine Liberation Organization di Tobias Hof, in A. HANNI, T. RIEGLER e P. GASZTOLD, Terrorism in the Cold War. State Support in the West, Middle East and Latin America, Bloomsbury, London 2021.

[2] E’ il caso di G. PARADISI, G. PELIZZARO e F. De QUENGO de TONQUEDEC, Dossier strage di Bologna. La pista segreta, Giraldi, Bologna 2010, nonché di V. CUTONILLI e R. PRIORE, I segreti di Bologna, Chiarelettere, Milano 2016, di un saggio del giornalista F. GRIGNETTI, Salvate Aldo Moro, Melampo, Milano 2018, del recente G. FALANGA, La diplomazia oscura. Servizi segreti e terrorismo nella Guerra Fredda, Carocci, Roma 2021 e, mi sia consentito, di V. SATTA, I nemici della Repubblica. Storia degli anni di piombo, Rizzoli, Milano 2016. Nella memorialistica, si segnala il libro Cuore di Stato (Mondadori, Milano 2017) del magistrato Carlo Mastelloni, il quale nel corso delle sue inchieste su traffici di armi svolte negli anni Ottanta fece importanti scoperte relative al “lodo Moro”. Dei volumi citati in questa nota, però, solo il primo è compreso tra i riferimenti bibliografici indicati da Lomellini.

Un discorso a parte merita un’altra opera del giornalista Grignetti, una biografia di Stefano Giovannone intitolata La spia di Moro, pubblicata da E-Letta, s.l., 2012, praticamente introvabile. Sono stati vani i tentativi fatti finora da me personalmente e, su mia proposta, dalla Biblioteca del Senato della Repubblica.

[3] Poiché la presunta malizia è attribuita a Cossiga, si ricorda che la prima volta che l’ex-Capo Dello Stato accennò pubblicamente al “lodo” fu in un’intervista del 5 novembre 2004 al quotidiano <<<La Stampa>>, nella quale egli non tirò in ballo Moro bensì sé stesso. Inoltre non fu Cossiga il primo a dare il nome di Moro a quegli accordi: ci fu chi lo precedette di gran lunga, come tra poco si dirà.

[4] Sull’argomento, il 28 aprile scorso ho pubblicato su <<Avantionline>> uno scritto intitolato Lodo Moro e Bologna, passando per Venezia e Damasco (https://www.avantionline.it/il-lodo-moro-e-la-strage-di-bologna-passando-per-venezia-e-per-damasco/)

 

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