Nella valle di Elah
di Claudio Vercelli
Ieri sera per me è stato il turno di “Nella valle di Elah” (tit. or. In the Valley of Elah) del 2007, diretto da Paul Haggis, con una sceneggiatura basata su una storia vera. Ammetto di averlo sottovalutato quando uscì, quindi trascurandolo. Sbagliavo. Si tratta, per buona parte della sua tessitura, di un dramma psicologico, recitato con grande talento da Tommy Lee Jones e da Charlize Theron. L’indagine che il silenzioso protagonista – il padre alla ricerca della ragione della morte di suo figlio – svolge nel corso del tempo è un profondo scavo dentro di sé, destinato a stravolgerlo non meno della ragione per cui si adopera, con caparbia determinazione, alla ricerca di una verità. Che non sta “fuori” da sé ma costituisce un palese ribaltamento del proprio modo di viversi. Non è un caso se il personaggio impersonificato da Lee Jones, per manifestare il suo disagio irreparabile, ancora più potente del dolore stesso per la morte del figlio (il secondo decedutogli sotto le armi), issi la bandiera del suo reparto, debitamente capovolta (un segno, nel linguaggio dell’American Flag Code, che indica il bisogno di aiuto o di soccorso immediato, essendo altrimenti incapaci di salvarsi da soli). Il volto di Lee Jones, scavato dagli anni, alternato a quello di una Theron ancora una volta poco facilmente riconoscibile (immagino che sia ciò che lei vada cercando, nella sua attorialità: ricordo ancora l’interpretazione di “Monster”, nel 2003) ma connotata da una pelle liscia e immacolata, costituiscono una sorta di tandem dei ruoli. I temi del film – la disfunzionalità di una struttura tendenzialmente segregazionista e coercitiva qual è l’esercito, insieme all’impossibilità di fare autonomamente fronte alle fratture della guerra, ovvero a quell’ampia categoria di condotte che ricadono sotto il disturbo post-traumatico da stress – sono qui ricondotti ad una dramma quasi da camera (anche se il tutto si svolge in spazi aperti e alternati), dove la vera cassa di risonanza è lo sguardo immutabile e pietrificato del padre, che vive dentro sé stesso un disagio crescente e poi incolmabile. Peraltro, usando con abilità gli strumenti dell’introspezione, Paul Haggis affronta il tema della violenza contro l’indifeso. A partire dalle guerre americane del XXI secolo. Poiché alla base dell’assurda morte del figlio (soprannominato”doc”, dai suoi commilitoni, per il di più di sevizie che comminava ai prigionieri iracheni) c’è il bisogno di sublimare la gratuità della perversione che ha coinvolto un grande numero di piccoli carnefici i quali, una volta tornati a casa, vivono il disagio etico e la dissonanza cognitiva tra l’avere fatto certe cose e il giudicarle, in cuore proprio, più che reprensibili. Sentendosi quindi in disaccordo con sé stessi ma non avendo, per l’appunto, nessun strumento per salvare la propria persona. E’ un film da vedere, da analizzare, da capire, da condividere. Una sola nota critica: il manifesto ufficiale del film, ossia la sua cover, è quanto di più fuorviante si possa offrire al potenziale spettatore.
