Memorie del mio incontro con Francesco Biamonti

di Filippo D’Eliso
L’affetto, l’amicizia e la stima che mi legano a Francesco Improta – mio professore di liceo agli inizi degli anni Ottanta – sono note e tutt’oggi tengono sempre deste le personali vicendevoli attenzioni alle novità letterarie, cinematografiche (sua grande passione), musicali (essendo io un musicista) e culturali in genere.
Erano gli inizi degli anni ‘90 e, dopo la pubblicazione del secondo romanzo Vento largo, fu per la prima volta che sentii parlare di Francesco Biamonti: il mio “vecchio” professore ne aveva intuito la straordinaria grandezza e mi aveva subito trasmesso il suo entusiasmo, ma in quel periodo non ebbi modo di approfondire.
Solo nell’agosto del 1993 ne acquistai il primo romanzo, L’angelo di Avrigue. Poi ci fu una grande pausa dovuta ad alcuni miei impegni indifferibili. Nel frattempo erano stati pubblicati Attesa sul mare e Le parole la notte, ma l’avvenimento fondamentale fu l’affermarsi da subito di un’autentica amicizia tra Biamonti ed Improta, ormai divenuto tenace divulgatore della sua opera e del suo pensiero.
Così nel novembre del 1998 tre ex studenti tra i ‘fedelissimi’ del ‘professore’ partirono alla volta di Ventimiglia. Il 26 novembre prima di mettermi in viaggio acquistai Le parole la notte. Eravamo stati informati che avremmo incontrato Francesco Biamonti a cena in uno di quei pochi giorni della nostra permanenza ospiti del professore. Indubbiamente era un evento straordinario, e mai avrei immaginato, prima di quel momento, di avere l’opportunità di trascorrere una tranquilla e piacevole serata tra amici in sua compagnia.
A quasi due anni dalla scomparsa, alla luce delle testimonianze e dei numerosi articoli e tributi postumi, avverto il sottile dolore del non essersi più rincontrati da quel lontano novembre del 1998. Come se nella attesa di una nuova sinfonia, la sua musica avesse cessato improvvisamente di esistere per cedere il passo allo spaventoso vuoto de Il silenzio dove si fa “la musica delle parole stesse” affrontando “la realtà del nostro tempo senza più consolazioni”, senza abbandonarsi “alla musicalità dei passaggi temporali e geografici”.
Andare “nel cuore dell’uomo, del suo inferno, musicalmente”.
Biamonti, nell’intervista rilasciata ad Antonella Viale e pubblicata ne Il silenzio conferma la sua eccellente sensibilità musicale.
I suoi occhi azzurri s’illuminavano durante la nostra conversazione. Attentissimo ascoltatore, lasciò che esprimessi alcune considerazioni musicali. Già il suo tono di voce scorrevole e calmo, incantevole a sentirsi, denotava una sottile capacità di riprendere i paesaggi sonori nella loro molteplice espressione. Il suo mare mi rimandava a La mer di Debussy che egli amava profondamente. E non poteva essere diversamente perché quel sospeso mondo sonoro prodotto dalle scale esatonali (ossia a toni interi) e l’assenza di semitoni, cioè di quei suoni più vicini alla loro possibile risoluzione, imprimono alle composizioni un clima precario e fragile in un’atmosfera quasi di sogno. Non c’è più la stessa gravità. La natura vacilla. Tutto è sospeso ed alleggerito del suo peso.
Il mare è il primo elemento che per sua natura si presta alla precarietà del mondo. La sua eterna irrequietezza ed apparente calma trovò nel linguaggio musicale di Debussy la sua più consona rappresentazione e non mera descrizione. E questo Biamonti lo aveva intuito ed affrontato concretamente imprimendo al suo linguaggio uno stile personale e rivoluzionario traslato dalla musica.
Compositori russi come Glinka (molto prima di Debussy) usavano la scala a toni interi per rappresentare episodi “soprannaturali” e “storie incantate”.
Non mi meravigliano, quindi, coloro che hanno accusato Biamonti di poca aderenza alla realtà perché questi non ne hanno assolutamente colto la geniale sensibilità.
I suoni e la loro organizzazione costituiscono un mondo inafferrabile ed ineffabile in quanto destinati a priori al silenzio, dato lo scorrere inesorabile del tempo, e contemporaneamente rimandano ad una molteplicità di sensazioni da essere infinitamente definibili e quindi indescrivibili.
Inoltre – e ciò fu ulteriore approfondimento della nostra conversazione – bastava sottrarre delle zone di suono, cambiare ritmo o tempo per far emergere accenti diversi dal flusso sonoro. L’emozione degli ascoltatori subisce imprevedibili caratterizzazioni. Ad una variazione del tempo corrisponde una contrazione o dilatazione dello spazio. È sottratta la possibilità di avere riferimenti di certezza percettiva.
Si pensi a quanta gravità Biamonti ha sottratto al peso del mondo ormai alla deriva e condannato al silenzio.
Italo Calvino, cultore della leggerezza, – basti vedere le sue Lezioni americane – non potrà rimanerne indifferente: è sempre all’interno della struttura linguistica che nascono energie creative degne di apportare nuova linfa alle innumerevoli miserie del mondo. Il linguaggio eredita dalla realtà tutte le sue contraddizioni ed incertezze filtrandone la percezione con luce primigenia. Un mondo visibile che si fa suono ed un mondo sonoro che si fa luce.
Claude Debussy affermava: “La musica che desidero deve essere abbastanza agile da adattarsi alle effusioni liriche dell’anima ed alla fantasia dei sogni”. […] “Poiché amo la musica appassionatamente, cerco di liberarla da tradizioni sterili che la soffocano. È un’arte libera, che zampilla, un’arte per l’aria aperta, un’arte sconfinata come gli elementi, come il vento, il cielo, il mare!” ed inoltre “Quanto bisogna prima trovare, quanto si deve eliminare, per giungere alla viva carne dell’emozione!”
E Biamonti: “… creare un mondo omologo a quello reale che ha, però, la mobilità di un sogno”.
Si parla di mobilità, quindi di ritmi, di linguaggio libero da formule fisse, di un’arte che – come affermava Debussy – “Non deve mai venir rinchiusa e diventare accademica” e non può per la sua stessa sopravvivenza cristallizzarsi.
E Biamonti: … “ho lavorato per sottrazione” per “dipingere la cosa ma anche l’emozione che essa dà”. Sottrarre è dimenticare per elaborare e portare alla luce l’invisibile ossia il perduto dialogo “fra gli uomini e le cose”.
I riferimenti alla musica nei romanzi di Francesco Biamonti sono molteplici ed anzi posso affermare, per le ragioni suddette, che le sue opere sono musica.
Dietro ogni apparente citazione c’è una profonda consapevolezza della lacerazione che essa comporta.
Due domande rilevanti mi pose: “Conosci Quatuor pour la fin du temps di Olivier Messiaen?” e “La tua condizione di musicista?”
Ma dietro queste, così strettamente legate, si affermò il suo acuto sguardo sul mondo.
Messiaen affermava: “Considero il ritmo il primo, e forse il più essenziale, costituente della musica”. E Pierre Boulez, suo allievo, “la musica era molto di più di un lavoro d’arte, era un modo di esistere, un fuoco inestinguibile.
Messiaen amava la natura e lo espresse attraverso il suo interesse per i canti degli uccelli: fonte inesauribile di melodie. Per certi aspetti prese le mosse dalle innovazioni di Debussy e s’indirizzò verso strutture asimmetriche, ossia: “Una musica ritmica che trascura la ripetizione, la rigidità e la suddivisione regolare, una musica cioè che è ispirata dal movimento della natura, un movimento di durate libere e ineguali.
E fu proprio l’inverno del 1940 a trovare Messiaen nel campo tedesco Stalag VIII A, in Sassonia. In quelle circostanze così drammatiche fu presentato il Quatuor pour la fin du temps ispirato da un passo dell’Apocalisse di San Giovanni, Capitolo X, 1-2, 5-7:
“Poi vidi un altro angelo possente che scendeva dal cielo avvolto da una nube; sopra al capo aveva un arcobaleno, il suo volto era come il sole e le gambe come colonne di fuoco. Egli aveva in mano un piccolo libro aperto, e pose il piede destro sul mare e il sinistro sulla terra…Poi l’angelo che avevo visto in piedi sul mare e sulla terra alzò la mano destra verso il cielo e giurò per Colui che vive nei secoli dei secoli…che non vi sarà più tempo, ma nei giorni in cui si farà sentire la voce del settimo angelo e quando egli suonerà la tromba del Mistero di Dio sarà compiuto come ha profetizzato per bocca dei profeti suoi servi”.
Così in Le parole la notte, capitolo decimo:
“Cos’è quello scheletro sospeso nell’aria, quello scheletro d’uccello?” […] “Aveva ascoltato anche la musica, il Quatuor pour la fin du temp. Non era molto diversa dal canto del tordo, che sere prima, aveva intonato la liturgia del tramonto. La stessa doppia voce, lo stesso calmo andamento, e le rive di silenzio. Un violino rispondeva alle invocazioni di un pianoforte e se ne andava sempre più in alto, lontano dalla terra” […] “Gli sembrava che anche per quelle viti, come per quelle terre nei bagliori del sole, il Quatuor fosse già cominciato.”
Ed al capitolo ventisettesimo:
“-Se tu dovessi dipingere, – chiese Eugenio, – dove ti attaccheresti? – Dove c’è più silenzio. […] Scuoteva il capo, guidando, come se avesse accompagnato un’interna musica. – Hai visto Veronique com’è cambiata? […] – Io continuo a sentirla un po’ flautata. E forse lei non l’ho mai vista. -Che intendi dire? -Non è mai stata una cosa tra le cose.
Inoltre al capitolo quattordici de L’angelo di Avrigue nel dialogo tra il monaco e Gregorio:
“-E cosa dipingeva? -Donne al pianoforte col mare sullo sfondo. -Strano. Ma era vero. Le donne le dipingeva di colpo, così il piano, e intorno al mare ci si perdeva. La donna era sempre la stessa, il mare mutava.” […] Il frate disse con candore che una volta aveva sentito sul mare l’Ave Maria di Schubert. Faceva negli spazi sterminati una grande impressione. Gregorio rimpianse. […] L’aveva sentita nel locale più malfamato di Barcellona.
Ormai tutto si è polverizzato ed anche la musica assume nuove funzioni espressive cedendo al silenzio.
“Dalla macchia mediterranea saliva un canto austero; canto breve, perché il vento dalle rocce si sollevò tra le nuvole”
(da – Il silenzio – pag. 24)
Ricordammo, infine, due casi particolari di musicisti a lui familiari in quanto conosciuti attraverso i suoi contatti editoriali con Einaudi a Torino. Le tormentate intenzioni di Ludovico Einaudi di dar corpo ad un linguaggio musicale che restituisse al mondo una perduta forza emotiva e la radicale scelta di Robert Schneider che, scegliendo la via della letteratura dopo anni di studi musicali, si affermò a livello internazionale con Le voci del mondo, scritto nel 1992 e tradotto da Einaudi nel 1994, ma dovette sublimare, se non proprio eclissare, il suo essere musicista dando forma in un altro linguaggio alle sue emozioni.
Ed oggi, nel libro Le parole la notte leggo
Ventimiglia, nov.98
A Filippo
alla sua musica teoretica
Con molti auguri ed anche amicizia questo libro notturno
Francesco
Grazie di cuore, Francesco.
[Filippo D’Eliso, Napoli, 26 settembre 2003]