Memento

di Claudio Vercelli

MEMENTO – Al tempo corrente, ossia ad oggi, questa ne è la fotografia. Non si tratta di una gara. Commerciale e/o politica. Men che meno, non è questione di pavoneggiarsi nacisisticamente sulle spoglie delle tragedie altrui. Anche se molti, non importa quanto inconsapevolmente, lo stanno invece facendo. Riducendo storia e cronaca ad una sorta di tifoseria calcistica. L’unica, in fondo, che ad essi rimane come orizzonte personale di riferimento. Ovvero come ancora di salvataggio. Tra risentimenti, identificazioni emotive, solipsismi e cos’altro. Poiché le avversioni collettive nascono, assai spesso, anche dalla somma dei propri disagi personali. Detto questo, dichiaro che non sono al di sopra del mio tempo. Quindi – anche per una tale ragione – non sono migliore (o peggiore) rispetto ad altri. Non mi nascondo, pertanto, dietro ad un sembiante di “obiettività” che, nei fatti, non si darà mai. (Posto che ciò che chiamiamo con il nome di “storia” non funziona mai per esclusiva par condicio: “tutti partecipi, tutti eguali”, per l’appunto, essendo quest’ultimo semmai un fraintedimento.) Si tratta, piuttosto, di un esclusivo esercizio di onestà intellettuale (Gaetano Salvemini). Chi richiama, infatti, il soccorso della “storia”, spesso non si avvede del fatto che essa è polifonica e, come tale, non distribuisce torti, così come ragioni, men che meno se gli uni e le altre sono invece intesi come assoluti indiscutibili, e non come ipotesi di interpretazioni. L’esistenza, infatti, è conflitto tra parti (e interessi) divergenti. Quindi, presa di posizione. Tra calcoli e identità confliggenti. Di idee, di armi come anche di parole. Dinanzi – tanto più in questo caso – a qualcosa che si trascina per tutto il Novecento. Attrvaersandolo e connotandolo. Prendere posizione è, esattamente, quella capacità di tutelarsi, nella propria soggettività, senza per questo negare la contemporanea esistenza di altri da sé. Non è equilibrismo ma equilibrio. Quest’ultimo, beninteso, non richiama la necessità di divenire giudici (di chi e di che cosa, poi?) ma l’occorrenza di capire che si fa storia solo, ed esclusivamente, se si ritorna al punto di partenza: non esiste – infatti – nessuna coesistenza che non sia in sé conflittuale. A tale riguardo, senza qualsivoglia esercizio pindarico, potrebbe bastare anche solo l’esperienza del vicinato di condominio. Le guerre sono “civili” quando non chiamano in causa una sola ragione ma nel momento in cui debbono trovare una mediazione (politica e civile) tra esistenze contrapposte nel medesimo, ed esclusivo, spazio geografico, antropico e relazionale. In esistenza – ciò che chiamiamo con il nome di “storia” – non richiama mai il mero bisogno di scegliere (come se sapessimo, per davvero, sempre e comunque – quindi a prescindere dall’evoluzione dei fatti – con chi e dove stare da subiro) ma la necessità di non farsi scegliere. Ovvero, di non subire per sempre le scelte altrui. Detto questo, so comunque con chi stare. Non adesso bensì da sempre. Ma non so come starci. Al pari di molti altri. Non ci offriamo certezze bensì domande. Anche per questo, in fondo, cerchiamo di rimanere esseri raziocinanti. Buona salute a chiunque non voglia fraintendere o mistificare tali parole.

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