Marcello Gigante nel ricordo di un’allieva

di Maria Luisa Chirico

Si avvicina il ventennale della morte di Marcello Gigante, filologo classico e papirologo, maestro dell’Ateneo Federiciano e studioso di fama internazionale. Era il 23 novembre del 2001 e la notizia mi giunse mentre facevo lezione a S. Maria C. V., non fui capace di continuare e immediatamente corsi a Napoli a casa sua, a Largo Tarsia, per unirmi al dolore della famiglia e della comunità scientifica. Il mio rapporto col professore risaliva a tanti anni prima, al novembre del 1969, quando ascoltai la sua prima lezione nell’enorme aula 1 dell’Istituto di Filologia classica a via Mezzocannone 16. Ero allora una giovanissima matricola, irrequieta e piena di dubbi: amavo il greco e il latino, ma avevo anche altre propensioni ed ero molto curiosa del mondo che mi circondava, dei cambiamenti che erano nell’aria. Non sapevo bene che cosa fare “da grande”.  Fu così, con questi pensieri confusi nella testa, che quel giorno di novembre mi sedetti in prima fila per ascoltare la lezione iniziale del corso di Grammatica greca e latina. Gigante aprì quel corso, incentrato, per la parte monografica, sugli Epigrammi di Filodemo di Gadara, con un ciclo di lezioni di metodo, che per me furono una rivelazione: la filologia come scienza storica, la visione anticlassicistica, l’unicità del mondo classico, l’antico che si intrecciava al moderno. Lezioni dure, rigorose, che mi svelavano un nuovo universo. L’aula era stracolma, si udiva solo la voce del professore, chiara e sicura, mentre tutti, in religioso silenzio, prendevamo appunti per fermarci poi, dopo la lezione, nell’ampio corridoio a rileggere, a confrontarci. Nel giro di poche settimane, frequentando quel corso, la confusione si diradò e cominciai a sentirmi giorno dopo giorno sempre più sicura della scelta che avevo fatto. Dopo il primo corso, ne seguii ancora quattro con Gigante: altri due di Grammatica greca e latina e due di Papirologia Ercolanese, la disciplina che egli introdusse nell’Università Federiciana (ma sarebbe meglio dire nell’Università italiana), legata al grande patrimonio dei papiri venuti fuori dagli scavi borbonici e custoditi nell’Officina dei papiri, nella Biblioteca Nazionale di Napoli. E con Gigante scelsi di laurearmi e avviai la mia attività di ricerca. Fu una formazione ferrea: dai giovani collaboratori esigeva, tra l’altro, che si continuassero a frequentare i suoi corsi e a me, per molti anni la più giovane, era affidato il compito di registrare e sbobinare le sue lezioni. In questo modo, con quest’esercizio duro, arricchivo giorno dopo giorno le mie conoscenze, anche bibliografiche, riflettevo sugli autori greci, sui problemi testuali, sviluppavo le curiosità, mi impossessavo del metodo e del mestiere. Negli anni ho riletto spesso quelle lezioni, gelosamente conservate, per rimeditare o semplicemente per risentire, attraverso la pagina scritta, la voce del maestro. Con Gigante ho partecipato all’organizzazione di grandi eventi (ricordo per tutti il Congresso Internazionale di Papirologia del 1983) e, come tutti i suoi allievi, ho avuto, grazie a lui, il privilegio di conoscere e ascoltare i più grandi filologi classici, non solamente italiani: non perdeva, infatti, occasione per invitare studiosi di altre Università a tenere lezioni nel nostro Istituto/Dipartimento, e per organizzare convegni o seminari. I suoi interessi, com’è noto, erano ampi: la civiltà letteraria greca, dall’età arcaica a quella bizantina, la Magna Grecia, la letteratura latina, la papirologia, lo studio degli autori della letteratura italiana (Leopardi, Settembrini, Quasimodo) nel loro rapporto con la cultura classica, la storia della filologia classica. E della sua scienza, che contribuiva ad accrescere il prestigio dell’Università Federiciana nel mondo, fu anche generoso divulgatore. In occasione dei bimillenari della morte di Virgilio e di Orazio organizzò a Napoli pubbliche Lecturae, aperte alla città, che valsero a trasferire al di fuori dell’Università, nelle scuole, fra le persone colte, i risultati della più rigorosa ricerca scientifica. Da Segretario prima e da Presidente nazionale poi dell’Associazione Italiana di Cultura Classica, la Società fondata a Firenze nel 1897, fu instancabile promotore di incontri con le scuole, di conferenze destinate a un pubblico ampio, tutte iniziative che hanno contribuito non poco a diffondere nella coscienza comune il senso della continuità e della validità dei nostri studi. In tutte queste attività eravamo coinvolti anche noi collaboratori in maniera assidua e anche questa è stata una palestra molto formativa, che ci ha educati a non stare rinchiusi nell’hortus conclusus dell’Accademia, a impegnarci per diffondere e incoraggiare, attraverso soprattutto i contatti col mondo della scuola, la conoscenza e l’amore per gli studi classici.

Un altro debito che abbiamo nei confronti del professore è la consapevolezza del contributo che il Mezzogiorno ha dato alla cultura nazionale, anche nel campo dei nostri studi. E mi riferisco non solo ai suoi lavori sulla civiltà della Magna Grecia e della Sicilia e al suo straordinario impegno scientifico e organizzativo per la promozione dello studio dei papiri ercolanesi, che, grazie a Marcello Gigante, hanno acquisito la dignità che meritavano negli studi del settore, ma anche alle indagini da lui promosse sulla storia degli studi classici nel Mezzogiorno d’Italia. Dopo “Settembrini e l’Antico”, organizzò agli inizi degli anni Ottanta un’importante ricerca sulla cultura classica a Napoli nell’Ottocento, nella quale fummo coinvolti in tanti, giovani e meno giovani del Dipartimento, ma anche studiosi esterni. Si trattava di indagare criticamente quanto era stato prodotto dalla cultura classica in àmbito regionale, avendo come riferimento il contesto nazionale ed europeo, secondo il percorso tracciato da Piero Treves. Fu un grande lavoro di gruppo, che ci vide impegnati ad esplorare biblioteche e archivi, pubblici e privati, nello sforzo di portare alla luce i contributi che personaggi non secondari della vita culturale e politica del nostro Mezzogiorno avevano dato alla diffusione degli studi classici e alla nascita della scienza filologica in Italia. Da quella ricerca (a cui mi dedicai con particolare passione) vennero fuori tre corposi volumi, che costituiscono ancora oggi un contributo imprescindibile non solo per i classicisti, ma anche per gli italianisti e, più in generale, per gli studiosi della cultura e della storia meridionale.

Altri infiniti meriti scientifici e organizzativi ebbe il professore, ma mi piace qui ricordare, per concludere, il suo rispetto per la libertà della ricerca anche dei più giovani: ognuno di noi, lavorando con lui, ha sempre potuto seguire le sue inclinazioni, ha potuto scegliere, tra i numerosissimi percorsi della scienza filologica, il campo di studio che più gli era congeniale.

E non vi è dubbio che anche questa rappresenti un’importante lezione.

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