Lucca 1531: la sollevazione degli straccioni

di Armando Pepe

«La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia, la rivoluzione è un atto di violenza» scriveva Mao Zedong. In effetti aveva ragione, a voler solamente considerare gli sconvolgimenti, piccoli e grandi, che hanno cambiato il Mondo e il modo di vivere. Ciò vale anche per una città italiana, configurata nella forma statuale di repubblica aristocratica, come Lucca, ove, tra il 1531 e il 1532 si ebbe la “sollevazione degli straccioni”, tramandata ai posteri da generazioni successive di storici e storiografi. Sollevazione scaturita da moventi economici, per via dello scarso guadagno dei filatori di seta, o testori, artigiani che non trovarono altra strada se non ribellarsi al potere costituito, dapprima radunandosi in pubblica assemblea nella spaziosa chiesa di San Francesco e poi mettendo in pratica le decisioni assunte. Uno stato di cose in perenne fibrillazione, con uccisioni, intimidazioni, repentine baraonde e tanta e non dissimulata invidia sociale, dovuta inevitabilmente a condizioni di vita non più affrontabili. Ne ricostruisce la genesi, con secche e ragionate parole e frasi, Renzo Sabatini, professore ordinario di storia moderna all’Università degli studi di Siena, nel libro “La sollevazione degli straccioni. Lucca 1531. Politica e mercato“, (pagine 192), edito da Salerno nel 2020. L’Autore riesce a fare sintesi, godibile e leggera, di una grande molte di carte, dispacci governativi, corrispondenze diplomatiche che, collegialmente, danno la misura del fatto. In premessa, osserva Sabatini che «È una storia da raccontare al presente, una storia che ancora ci interpella, quella che tiene la piccola Repubblica di Lucca sull’orlo dell’abisso per un intero anno, dal maggio 1531 all’aprile 1532. A guidare la ricostruzione sono i documenti d’archivio e le cronache coeve, e poi – via via – le riflessioni successive, l’assimilazione della “lezione” della sollevazione popolare, la trasmissione della memoria fino agli approcci della storiografia attuale. Ma quanto più la narrazione si fa “scientifica” e interna all’Europa e alla Lucca del Cinquecento evitando forzature anacronistiche, tanto più i problemi di allora – in ben altro contesto e dimensione geografica, in ben altra forma, con ben altre alternative di risoluzione, ma certo con non minore urgenza – fanno appello, oggi, al nostro senso di responsabilità e di impegno di cittadini, di esseri umani. È la ricchezza dei temi a rendere la vicenda affascinante. Gli undici mesi di tumulti e di lotta politica ci mostrano un intreccio di rivendicazioni corporative e salariali, di proteste per il caroviveri («le donne per la strada gridavano pane, pane»), di richieste di rappresentanza politica, di dissidi interni alla nobiltà, di violenze private, di bisogno di giustizia e di pace sociale, di preoccupazioni per gli equilibri internazionali» (p. 7). Da un punto di vista scientifico, avere un quadro d’insieme chiaro, sia pure nella loro eterogeneità, delle fonti, per farne in seguito una collazione che ricostruisca tassonomicamente gli eventi, è un dato lapalissianamente inoppugnabile. Sabatini riesce mirabilmente a districarsi, a dipanare lucidamente il filo del racconto. Incalza, riassumendo che «Lo sguardo dei governanti non si ferma al vicino, tradizionale nemico, ma abbraccia l’intera scena europea, che ha appena visto l’incoronazione di Carlo V e ha preso atto della via ormai imboccata verso una pax hispanica per gli stati italiani – pur in una situazione ancora fluida e foriera di tensioni e guerre. L’imperatore entrerà trionfante a Lucca, risalendo l’Italia dopo l’impresa di Tunisi, nel 1536. Ma la sua figura aleggia sulla città in tutte le fasi della Sollevazione, di cui segue l’evoluzione attraverso l’occhio (peraltro non limpido e forse viziato da ambizione personale) di un proprio informatore residente in città, l’ancora abbastanza misterioso Marzilla. A Carlo V – inconfessabilmente – gli aristocratici per il tramite di Andrea Doria chiederanno un intervento militare, che solo per un ripensamento non ci sarà; a lui gli Anziani invieranno ambasciatori per fornire l’informazione ufficiale dei fatti e della repressione appena venuti a capo della rivolta; a lui si rivolgeranno, inutilmente, gli Straccioni fuoriusciti e banditi. Le vicende della sollevazione colpiscono poi per il ruolo che vi giocano l’informazione, le passioni e l’irrazionalità: sono le false notizie di possibili interventi punitivi dei governativi che diffondono la paura tra i ceti popolari e attivano il circolo vizioso di azioni di protesta sempre più violente. Mentre le cronache coeve rilevano le tecniche demagogiche e abbondano di particolari sul carattere, i sentimenti e le ambizioni dei protagonisti, individuali o di ceto: al netto del giudizio morale, l’insistenza su questi aspetti – meno tangibili e documentabili – può avere per noi il valore di un invito a una storia più “umana”» (pp. 9-10).  La complessità degli accadimenti, che non sono mai lineari, è resa semplice dall’uso sapiente delle informazioni pregresse, di ciò che diaristi e autori di opere storiche hanno nel corso dei secoli pacatamente fatto sedimentare. Sabatini sa bene che nessun cronachista è assolutamente oggettivo, dato che l’imparzialità è inesistente, ma che bisogna trarre dai resoconti, viziati di partigianeria, il vero, facendo di necessità virtù. Proseguendo nella narrazione, l’Autore pone testi a confronto, parallelamente, come quando riporta che: «Il clima da guerra civile nel quale Lucca è piombata dopo mesi di più diluita violenza si coglie in questo passo [tratto dalle Historie di Lucca di Giuseppe Civitali] di grande sensibilità umana: Chi havesse veduto per la città correr armati per ogni strada, e sentito sonar la campana del Palazzo con altre di più chiese in suono mesto e spaventevole, il gridar de fanciulli e delle donne alle fenestre e per le case di quasi tutte le contrade, che havevano padri, mariti, fratelli e figli in queste rovine, credendo loro che tutti si ammazzassero insieme, haverebbe havuto gran compassione. Ma altre cronache raccontano episodi di violenza popolare che giunge alla profanazione dei cadaveri, come avviene al corpo del “cattivo spirito” di uno dei capi della sollevazione, attorno al quale la gente gioisce, “a guisa dell’allegrezza che si fa delle volpi ammazzate per il contado”. Dallo spettacolo macabro al dispiegamento rassicurante della potenza militare. L’ingresso in città delle schiere contadine organizzate dai Buonvisi assume toni epici nella tarda rievocazione di Nicolao Tucci: veniva la persona di Martino stesso a cavallo armato d’armi bianche et accompagnato da circa 50 gentiluomini e capitani tutti a cavallo circondate per ogni intorno da non piccolo numero di alabarde e di doppieri accesi, che con lo splendor doppio in quelle lucidissime arme riflettendo porgeva ai riguardanti insieme diletto e securezza. Ma la scena madre è l’incontro tra il Buonvisi “liberatore”, cittadino privato, e il Gonfaloniere, massimo rappresentante del potere istituzionale; un incontro che suggella la conferma della scelta repubblicana e della regola della “mediocrità”, raccontato nelle cronache come un’azione teatrale» (pp. 14-15). Come ogni cosa umana, anche la sollevazione degli straccioni ebbe una fine, durando in piena autonomia la repubblica oligarchica fino all’avvento delle truppe napoleoniche.

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