L’occupazione italiana del Paese delle Aquile

di Giovanni Villari

Ecco i fichi di Cartagine»: con tale espressione riportata nei suoi Diari e ricalcata su un aneddoto attribuito a Catone il Censore, nel 1938 Galeazzo Ciano presentava a Mussolini alcuni campioni di rame estratti dalle miniere albanesi a simboleggiare la ricchezza di quelle terre. Circa un anno dopo tale interesse si sarebbe concretizzato nell’occupazione da parte italiana del “Paese delle Aquile”, una conquista punto culminante di una politica di influenza avviatasi già in età liberale, ma portata avanti con sempre maggiore intensità sotto il fascismo.

Il volume intende fornire un panorama ad ampio ma approfondito spettro degli effetti, dei risultati e delle deficienze dell’occupazione italiana dell’Albania. Si prefigge di colmare una lacuna presente ancora oggi nella storiografia italiana, ossia la mancanza di un’opera complessiva e, per quanto possibile esauriente, sui rapporti italo-albanesi nel periodo 1939-1943. È pur vero che negli ultimi anni è rinato un certo interesse per le vicende albanesi, ma allo stato i lavori prodotti si sono limitati ad aspetti specifici dell’occupazione, tralasciando il contesto in cui essi andavano a inserirsi. Quei pochi che forniscono un quadro generale della situazione in Albania o sono datati o non contemplano le fonti documentarie italiane (mi riferisco in quest’ultimo caso all’ottimo lavoro di B.J. Fischer, L’Anschluss italiano, del 1999, che utilizza in prevalenza fonti anglosassoni).

Questo studio utilizza invece un’ampia gamma di fonti presenti nei principali archivi italiani (tra cui il fondo del Sottosegretariato di Stato per gli Affari Albanesi da pochi anni reso accessibile) e presso l’Archivio di Stato di Tirana (anch’esso reso accessibile in anni relativamente recenti), assieme a documenti d’archivio editi, sia italiani sia stranieri, e a un’ampia bibliografia italiana ed estera su tutti i principali temi inerenti i rapporti italo-albanesi negli anni della Seconda guerra mondiale; ciò ha consentito di analizzare anche aspetti in precedenza trascurati, come la questione degli albanesi confinati.

Il volume ripercorre gli anni tra il 1939 e il 1943, ossia quelli dell’Unione tra Italia e Albania. Un primo periodo fu segnato dalla costruzione dell’Albania fascista, dallo sviluppo di un regime collaborazionista e di un’amministrazione civile nella quale furono coinvolti numerosi elementi della classe dirigente autoctona dell’epoca. L’Albania doveva presentarsi agli occhi del mondo come esempio di piena esportabilità del fascismo, capace di portare in pochi anni allo sviluppo un Paese sino allora rimasto povero e arretrato. Nonostante le realizzazioni materiali, sociali e legislative il “Paese delle Aquile”, seppur formalmente posto sullo stesso piano dell’Italia, fu in realtà piegato agli interessi economici e strategici degli italiani. In tale fase non era possibile per gli albanesi contrastare efficacemente la presenza fascista ma è già possibile evidenziare elementi di malcontento addirittura presso esponenti nazionalisti vicini all’Italia.

A tale periodo, pur caratterizzato da importanti novità per la società albanese, seguì l’apertura delle ostilità con la Grecia. La pessima prova fornita dagli italiani nel corso di quell’impresa gettò una prima ombra sulla forza reale del fascismo e minò i rapporti bilaterali tra l’Italia e quei settori del nazionalismo albanese che pure avevano riposto in essa fiducia nelle possibilità effettive di riformare e contribuire allo sviluppo della propria patria. Il periodo che va dalla formazione della “Grande Albania” alla fine del 1942 evidenzia le difficoltà che l’Italia ebbe a incontrare nella gestione della vittoria e le sempre maggiori spinte autonomistiche, talora in contrasto con gli interessi e le direttive di Roma, da parte del governo albanese e dei maggiori esponenti del nazionalismo e del fascismo locale. Si vuole avvalorare l’ipotesi che i governi collaborazionisti non fossero dei semplici fantocci ma, certamente coadiuvati dalle contingenze belliche, si facessero portatori di esigenze nazionali dapprima nell’ambito della comunità imperiale di Roma, in seguito, a causa della pessima gestione italiana del potere e del mutamento delle sorti della guerra, cercando di sottrarsi all’ombrello protettivo di una potenza che si dava ormai per sconfitta.

Il terzo e ultimo periodo vide farsi sempre più precario il controllo italiano oltre Adriatico. Nonostante i tentativi di riforma messi in cantiere sul finire del 1942 onde poter mantenere un certo grado di consenso tra la locale classe dirigente e evitare di perdere il controllo del Paese, gli italiani incontrarono sempre più difficoltà e dovettero fronteggiare la crescita del movimento di resistenza partigiana nazionalista e comunista. L’ultimo tentativo per fronteggiare la crisi consistette nell’estromissione di Jacomoni, uomo di Ciano, e la sua sostituzione con il generale Pariani quale luogotenente del re Vittorio Emanuele III in Albania. A una repressione sempre più accesa nei confronti di ogni forma di dissidenza, seppur essa non raggiungesse i livelli dei territori soggetti a vera e propria occupazione militare, si aggiunse anche un tentativo di intesa con la resistenza nazionalista. Il volume riporta i documenti che testimoniano il raggiungimento di un accordo, valido per un certo periodo di tempo, tra comandi militari italiani e capi partigiani albanesi del movimento Balli Kombëtar: una collaborazione sulla falsariga di quanto avvenne in Jugoslavia tra comandi italiani e cetnici.

Con l’avanzare del 1943 anche in Albania il controllo del territorio da parte italiano si fece sempre più precario, tanto che nell’estate il Paese fu dichiarato interamente zona d’operazioni e posto sotto l’autorità militare. Il sopraggiungere dell’8 settembre 1943 segnò fatalmente la fine di un lungo periodo di intensi rapporti tra le due sponde dell’Adriatico e l’inizio di un distacco terminato solo negli anni Novanta del XX secolo.

 

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