L’equilibrio degli egoismi. Pace e guerra, democrazia e socialismo. Un binomio inscindibile e tuttora attuale?

di Federico Lucarini
Chi voglia oggi discutere delle cosiddette ideologie ed in particolare sulla loro presunta e oramai quarantennale “scomparsa”, della quale vanno discettando senza posa né misura alcune categorie ben precise, come i politicanti di mestiere, i giornalisti, i critici, dovrà “fare i conti”- stando alle parole di una tanto prolifica e versatile quanto misconosciuta figura di intellettuale – con un Paese che, senza scomodare nascita e sviluppi della politische Geographie rimane, e non soltanto a livello linguistico, una non-Nazione.
Tutti costoro potrebbero limitarsi a «fa[re] arte pura e di filosofia e di politica non d[ovrebbero] occuparsi». Tuttavia spesso (per non dire sempre) il nostro presente più o meno tristo, si trova al postutto [a meno di non ricadere nell’Iperuranio] di fronte alla scelta obbligata di porre in questione una negazione semplice ma purtroppo non così evidente.
Difatti, il Partito di volta in volta al potere si arroga il diritto di negare la libertà, non limitandosi soltanto a sopprimerla sotto qualsiasi forma – derubricandola ipso facto a pura enunciazione teorica – bensì consentendo a sé stesso ed imponendo alla Comunità governata, a suon di ineffabili sofismi, di discettare amabilmente attorno al senso/segno da attribuirsi al lemma-significante e al concetto-significato.
Una Weltanschaaung simile propone Rosario Assunto, anch’egli dotato di una tempra di outcast che lo pone oggettivamente al di fuori di ogni e qualsiasi schematismo al punto che – durante il 1968 – assumerà un atteggiamento quasi programmaticamente reazionario da rovesciarsi nel suo esatto opposto, divenendo persino rivoluzionario.
«Delle molte e varie ricerche condotte nel corso di questi ultimi lustri – in sede speculativa e in sede critica, ma anche sul terreno stesso della produzione artistica – intorno ad un eventuale configurarsi dell’arte come risposta ad interrogativi che troverebbero nella filosofia il loro ruolo appropriato, non è detto che non si possa ricavare un qualche guadagno e che le loro risultanze non debbano riuscire proficue, così all’approfondimento dei problemi estetici come di quelli logico-metafisici. A condizione, però, che ci si muova con estrema cautela; e a condizione di non volerne ricavare non sappiamo quale identità fra arte e filosofia, che, ad accoglierla ci chiuderebbe in una domanda impossibile ad eludere: perché arte e non filosofia? Perché filosofia e non arte?».
A tale riguardo vengono a proposito le osservazioni sulla «condizione umana» esplicitate a diversi anni dalla prima edizione del romanzo-verità di André Malraux (pubblicato nel 1933 ed il cui protagonista è la Morte) da due personaggi apparentemente agli antipodi, sia sul piano dell’apprentissage culturale sia sul versante della collocazione politica: il filosofo comunista Cesare Luporini, nato nel 1909 e l’avvocato liberale Giovanni Malagodi, del 1904.
Entrambi, però, accomunati da un fattore nominalistico forse non decisivo e tuttavia rimarchevole, ovvero l’entrata nell’agone parlamentare in età relativamente tarda, il primo come Senatore del Pci per la terza legislatura – dal 1958 al 1963 – il secondo in qualità di Deputato nelle fila del Pli durante il 1953, entrambi alla medesima età anagrafica e cioè lo scadere dei quarantanove anni. In un saggio di Luporini significativamente intitolato Un frammento politico giovanile di G. W. F. Hegel. Destino e libertà, in origine apparso nel 1945 sulle colonne di «Società», così leggiamo:
«[…] l’uomo è sempre solo anche se egli si è posto dinanzi la propria natura e di questa rappresentazione ha fatto il suo compagno e in essa gode se stesso; egli deve trovare anche il rappresentato come un vivente. Lo stato dell’uomo, che il tempo ha cacciato in un mondo interiore, può essere o soltanto una morte perpetua, se egli in esso si vuol mantenere, o, se la natura lo spinge alla vita, non può essere che un anelito a superare il negativo del mondo sussistente per potersi trovare e godere in esso, per poter vivere».
Il politico liberale, invece, proveniente da un’antica stirpe di proprietari terrieri della Padania ferrarese [di nuovo una coincidenza con Luporini, nato nel capoluogo padano da un ferroviere], era figlio del giornalista-pubblicista Olindo, passato da inclinazioni apertamente socialiste ed approdato – dopo un breve transito conservatore, seguito da un lungo soggiorno a Londra – sulle posizioni di Giovanni Giolitti. Nel corso degli anni Trenta Giovanni poté frequentare a Milano il salotto del banchiere ed editore marchigiano Raffaele Mattioli, presso cui si riuniva la parte migliore dell’Intelligencija antifascista, dai critici letterari Francesco Flora e Angelandrea Zottoli, ad Antonello Gerbi, Capo dell’Ufficio Studi della Banca Commerciale Italiana, passando per il giornalista Adolfo Tino, l’economista Ugo La Malfa e il narratore Riccardo Bacchelli.
Il futuro Ministro del Tesoro nell’esecutivo guidato dall’esponente dell’ala destra della Democrazia Cristiana Giulio Andreotti, tra il febbraio del 1972 ed il luglio dell’anno seguente, tentava di far fronte – all’indomani della presentazione alla Camera, il 2 marzo 1962, del IV Governo presieduto da Amintore Fanfani (fondato sulla coalizione Dc-Psdi-Pri) e ancor più legittimato dall’appoggio “esterno” del Psi – agli attacchi «senza posa» rivolti al liberalismo da molteplici direzioni: socialisti, radicali, cattolici ed autoritari.
«Anche fra coloro che amano la libertà serpeggia il dubbio – egli notava – che essa non sia compatibile con il mondo della massa e della tecnica, e i cuori e le menti si volgono con nostalgia verso i tempi dei padri, verso la libertà dei notabili, verso un fantastico idillio artigiano e campagnolo. Ben più dura è la realtà nella quale dobbiamo agire, ben più netti e più aspri i conflitti dei nostri tempi […] Nessuna società è più possibile che non sia una democrazia integrale, una società di tutti per tutti [SIC!]»
Poi – proseguendo su questa falsariga – aggiungeva:
«É possibile governare queste società nuove con istituzioni sostanzialmente identiche a quelle delle società di una volta, autoritarie, chiuse, rigide, tendenzialmente immobili? O esigono esse forme nuove per un contenuto nuovo, forme di libertà, aperte, plastiche, mobili, capaci di continuo rinnovamento? Esigono di essere guidate da élites aperte, articolate e costantemente ringiovanite dall’afflusso della gente nuova che emerge in tutti i campi? Chiedono i tempi una società di massa governata con metodi dittatoriali, ove è un fossato o un abisso fra la oligarchia dirigente e i cittadini comuni? O chiedono una società di “massa non-massa”: di massa per il suo volume e le sue tecniche – non di massa perché costituita tutta di cittadini autonomi e responsabili, partecipi del potere sociale e politico? […] Quale, dunque è civile e quale barbarica? Quale ha per sé l’avvenire?».
E di seguito replicava:
«La risposta di un liberale non fa dubbio […] Egli non si chiude in nessun passato, neppure nel passato liberale, ma ne mette a frutto i valori. Egli sa che nessun problema, né umano, né tecnico, è insolubile dalla libertà e perciò non teme le novità del presente e quelle che si preannunciano per il futuro. Anzi, si accinge a farne strumenti per una società sempre più compiutamente umana».
D’altra parte, quattro anni prima Pompeo Biondi – titolare della cattedra di Dottrina dello Stato all’Istituto Cesare Alfieri dal 1939 e vicino alle posizioni liberali di Giuseppe Maranini – nella Prefazione al volume Un’esperienza democratica. La nuova politica dell’Italia – aveva argomentato come «[…] il faticoso processo di formazione della democrazia […] risulta[sse] dall’analisi delle forze politiche in movimento». Ed a quanti avrebbero potuto obiettargli che il suo costituiva un approccio “tattico”, reo o presunto tale, di mettere la sordina ai «grandi moti ideali», precisava che questi ultimi «[…] governa[va]no la politica solo nella misura in cui gli uomini ne sono governati e questa misura [era] rivelata appunto dalla politica posta in atto, dai modi e dalle forme degli incontri e dalle lotte degli uomini». Difatti, proseguiva lo studioso fiorentino, la «[…] libertà come ideale e come metodo […]» era destinata ad un tramonto precoce dalla scena politica allorquando fosse venuta meno «[…] la solidale responsabilità di quanto accade e si vo[lesse] sostituire la responsabilità di tutti per tutti, la propria o la altrui ragione esclusiva. Uno degli errori più frequenti tanto degli apologeti quanto dei critici della democrazia […]» consisteva, appunto, nel considerarla quale «metodo per governare gli uomini […]», laddove si trattava di «[…] qualcosa di meno e molto di più: un metodo per educarli all’autogoverno». Par consequent il «[…] significato profondo della democrazia [andava ricercato] nella efficacia concreta del [suo] processo educativo […] e nella consapevolezza che ciascuno conquisti della realtà di tale processo e del valore che [avrebbe] assu[nto], per sé e per gli altri, nella lenta storia del riscatto dalla servitù del potere».