Le leggi razziali in Italia
di Claudio Vercelli
Ancora un memento personale. Istigato in ciò da lui stesso, ossia mio padre, a tenerissima età iniziai ad interessarmi a quanto lui medesimo indicava, peraltro con sommo pudore, come abominio dell’umanità. Qualcosa che, in famiglia, poteva essere citato solo come una tragedia di cui il pianeta intero doveva vergognarsi ad imperitura memoria. [Mia madre, solerte e “amorosa”, bontà sua, mise nello zaino di una delle mie prime vacanze in “colonia”, quando avevo poco più di una decina d’anni, “Se questo è un uomo”: nel momento in cui i/le “monitrici/ori” (così venivano chiamati, allora, gli animatori) lo videro, telefonarono immediatamente a casa dei miei, segnalando il fatto che io stessi leggendo un “libro dell’orrore”, a loro dire del tutto inappropriato per un ragazzino della mia età]. Bene, più o meno nello stesso periodo, iniziai a leggere libri sull’epoca (come quello di Grosser, qui evocato; la copertina lo disturbava, per così dire), e sui fatti che sembravano tanto turbare la mia famiglia. Soprattutto mio padre. Che ricordava il fascismo come negazione dell’umano. Divenni ben presto un pasdaran della memoria. Molto prima, per capirci, che iniziasse la lunga stagione del ricordo collettivo, negli anni Novanta. Il genitore maschio (genitore 1 o 2?), non comprese il senso della mia passione. Anzi, lo fraintese. Covò per un breve lasso di tempo il suo sospetto e poi, propiziato da un pranzo di famiglia, mi espose al pubblico ludibrio. Evidentemente pensandomi come un deviato, destinato a indossare una camicia, nera o bruna che fosse. Aveva fallato di brutto, il poveretto. Disse ai presenti che la mia era una sorta di perversione, inaccettabile in una famiglia antifascista. Ma io ero oramai troppo infuriato! Come poteva avere non compreso il senso del mio impegno? Nel tragitto di ritorno a casa, in macchina, gli dissi quindi cosa pensavo di ciò che aveva poc’anzi detto. Cose irriferibili. Da quel fatto, iniziò la mia prima adolescenza e la mia maturazione personale. Ci sarebbe voluto molto altro tempo per divenire l’individuo imperfetto che ritengo di essere. Imperfetto da molti punti di vista. Da mio padre, venuto a mancare il 23 novembre 2018, ho infatti ereditato tante cose, tra le quali il senso di incompiutezza. Dopo di che – e di ciò me ne vanto – ha fatto in tempo a congedarsi da me dicendomi che ero stato capace di dire quello che lui invece tratteneva in sé. Mi lodò, in letto di morte. “Hai fatto e detto quello che io, invece, non ho avuto il coraggio di fare e dire”. E del mio gli dissi che, grazie alle sue parole alte e assolute, ci eravamo ricongiunti. Non da una divisione personale – che mai si era verificata – ma in virtù di una trasmissione intergenerazionale che oggi, tanto più, risulta altrimenti molto difficile, se non impossibile.