La trilogia di Valentina Motta

di Fabio Libero Grassi

Prima che qualcuno che se ne accorga, confesso tranquillamente che il primo di questi tre libri lo avevo già recensito su questo blog, e recensito come segue:
“Che bel libro limpido, umile, serio, meritorio, interessante e piacevole. Laureata sia in Storia dell’Arte sia in Filologia Greca, l’autrice ha compiuto un tenace, presumo faticoso, percorso di individuazione, reperimento e analisi delle rappresentazioni del mito di Antigone nella pittura dell’Ottocento, con qualche escursione nei secoli precedenti e successivi nonché qualche escursione nella scultura. Dico “presumo faticoso” perché Motta è andata a scovare opere di autori spesso poco noti e conservate in musei non del “grande giro” o in collezioni private.
Questo libro esplora tutti i topoi del mito, da quello della pietas filiale a quello della tentata sepoltura di Polinice, ossia della tragica ostinata contrapposizione con la ragion di stato impersonata da Creonte. Tra gli aspetti più interessanti che questo lavoro mette in evidenza è l’assenza o la presenza di Ismene, nel secondo caso con quale dialettica funzione; e quasi sempre campeggia Edipo. Con ammirevole asciuttezza e chiarezza, l’autrice mostra a quale delle fonti classiche, e con quale tasso di fedeltà, si riferiscano le opere riprodotte, nonché il gioco di sponda tra alcune di esse e altre grandi storie della tradizione occidentale, come quella di Re Lear e dell’onesta e devota figlia Cordelia. Né mancano puntuali riferimenti alle riflessioni di grandi filosofi come Hegel e Kierkegaard.
Mai una parola di troppo, in questo libro. E, con rare eccezioni, un olimpico minimalismo (non mi viene altro termine) sulla qualità delle opere in oggetto. Non tutte, ma buona parte, appartengono alla pittura accademica dell’Ottocento e, detto tra noi, al qui presente appaiono quasi sempre goffe, pesanti, enfatiche, imbarazzanti. Non so che cosa ne pensi la studiosa che ci ha regalato questo libro. Di sicuro questo libro, tra le tante altre cose, ci ricorda che, piaccia o non piaccia, non furono i Turner, non i Manet, non i Van Gogh, ma gli autori di queste “buone cose di pessimo gusto” a riflettere e a plasmare il gusto e l’immaginario della cultura europea dalla rivoluzione francese fino alla prima guerra mondiale (e qui ritornano in mente le annotazioni di studiosi come Arno J. Mayer).
In conclusione, e tanto più nei tempi grami che stiamo vivendo, consiglio a tutti di trovare questo libro e di concedersi due-tre ore di istruttivo diletto (se vi pare poco)”.
Ma poi ho appreso che questo libro era il primo di una trilogia dedicata a tre eroine della letteratura antica, che hanno ispirato moltissime opere dell’arte europea. Mi sono procurato gli altri due e sono lieto di potere dire che anche i due nuovi soggetti sono trattati con amore, perizia, tenacia, ampio respiro. Piuttosto che scrivere due nuove distinte recensioni o scriverne una “cumulativa” sul secondo e sul terzo libro accoppiati, alla fine ho preferito riprendere il discorso nel suo insieme.
Delle tre protagoniste, Antigone è quella più cerebrale, “ideologica”: certo, agisce fondamentalmente per affetto filiale e fraterno, ma incarna e difende fanaticamente princìpi morali non negoziabili. Alcesti e Medea, invece, non incarnano doveri ma semmai sentimenti assoluti. Assoluti e opposti, che portano la prima al sublime sacrificio a favore del marito e la seconda all’atroce vendetta, di cui vittima diretta sono i figli ma vittima psicologica è l’ex-marito. Inutile dire che alle femministe piace più Medea che Alcesti. L’autrice registra compostamente questa non sorprendente differenza di attitudine.
Come è vero che squadra che vince non si cambia, l’impostazione dei tre volumetti è la stessa: una concisa introduzione al personaggio e al suo esordio nel panorama letterario della civiltà occidentale, poi un’accurata analisi della sua fortuna e delle sue interpretazioni, soprattutto nell’arte figurativa degli ultimi due secoli. Riguardo ad Alcesti, una puntualizzazione molto utile e interessante è che l’opera di Euripide che porta il suo nome non era una tragedia ma un dramma satiresco. Infatti finisce bene e ha tratti umoristici, in particolare nella rappresentazione di Ercole. Solo con gli autori e con gli artisti successivi la vicenda e i suoi personaggi sono stati portati a una dimensione limpidamente alta, in cui il proposito edificante è stato depurato da qualsivoglia “scoria” leggera. Mi si consenta qui di ricordare un raccontino di Gianni Rodari, “Il filo di Admeto”, che beffardamente riconduce la vicenda alla dimensione disforica propria della tragedia. Esso si conclude infatti con un Admeto preoccupato, il quale pensa che, fallito lo scambio, ora una buona volta toccherà a lui morire, e un Ercole che, ignaro dell’antefatto, non capendo il motivo del suo malumore, se ne va perplesso. Poiché nel libro di Valentina Motta non si fa cenno a questo “finale alternativo”, devo pensare che sia stata da cima a fondo una felice invenzione di Rodari (a proposito, andatevi a leggere il racconto “La sirena di Palermo” e poi ditemi se non è stato uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento. Scusate la divagazione).
Per quanto riguarda Alcesti, tra le tante altre interessantissime osservazioni spiccano quelle sulle interpretazioni cristiane del mito, che in effetti è un mito di sacrificio, di discesa agli inferi e di ritorno tra i vivi, e quelle su un personaggio secondario ma non irrilevante, Apollo, una divinità originariamente molto meno apollinea di quanto sia progressivamente diventata: ricordiamoci sempre, del resto, che è lui a dardeggiare ferocemente gli Achei nel primo libro dell’Iliade! Posso aggiungere che le opere figurative su Alcesti sono mediamente, in particolare le sculture, meno brutte di quelle dedicate ad Antigone. Sia ben chiaro, anche in questo caso non mancano quelle brutte assai, però a occhio mi sembrano che la moglie devota le rappresentazioni che isolano con buoni risultati la sua personalità siano più frequenti, forse proprio perché in quel che decide di fare Alcesti, contrariamente a quel che decide di fare Antigone, non c’è nessuna dimensione politica, di cosciente rivendicazione valoriale, cosicché la tentazione della posa enfatica è minore. Tutte queste, va precisato, sono mie personalissime opinioni: in tutta la trilogia l’autrice è estremamente parca e sobria nei giudizi estetici, poiché ha come obiettivo una limpida, oggettiva illustrazione dei propositi dei vari artisti, del contesto in cui hanno prodotto le opere riprodotte e delle fonti da cui hanno attinto l’ispirazione. Il che porta spesso a brevi storie di affascinanti vicende umane. In particolare, ritorna spesso all’attenzione del lettore l’ambiente dei tanti artisti europei che elessero l’Italia, e in particolare Roma, a loro stabile soggiorno.
E Medea? Se alla terza e ultima delle tre eroine dedico meno spazio è semplicemente perché tutte le generali informazioni che avete già letto valgono anche per il terzo e per ora ultimo capitolo. Anche in questo caso i collegamenti e i riferimenti letterari, musicali e filosofici sono tanti e appassionanti e anche in questo caso, come si esce dalle secche della pittura accademica dell’Ottocento, si possono ammirare parecchie belle opere. Preziose sono le pagine su aspetti meno comunemente noti del mito, e tuttavia oggetto anch’essi di tradizione iconografica, come quello del carro con cui Medea fugge dopo aver consumato il suo delitto.
In conclusione, aspettiamo Didone. E sia tetralogia.

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