La tazza Rospigliosi

di Roberto Cafarotti

Chissà se la persona che ne commissionò il furto era un ricchissimo e annoiato pazzo che voleva fare impressione sui suoi ospiti, o semplicemente una banda di delinquenti che sperava di arricchirsi chiedendo un riscatto – tutto sommato per l’opera in questione, anche modesto – di 10 mln di euro?
In quest’ultimo caso, mi chiedo perché abbiano rubato questo pezzo, trascurandone molti altri, magari meno preziosi, ma certamente abbastanza per garantire loro il raggiungimento di obiettivi economici elevati ma con molto minor rischio di attenzione.
Se invece si trattò di un ricchissimo farabutto, sono particolarmente felice che gli sia andata male. L’idea di perdere un simile capolavoro assoluto dell’arte mondiale per soddisfare l’ego astronomico di qualche idiota non l’avrei mai digerita.
Di cosa si tratta? Naturalmente della saliera più bella e preziosa del mondo. Quella commissionata da Francesco I re di Francia a Benvenuto Cellini negli anni quaranta del Cinquecento.
L’evento così rocambolesco del furto dell’opera, avvenuto nel 2003 e poi fortunatamente recuperata tre anni dopo, si allinea perfettamente con lo spirito avventuroso del suo autore. Cellini scrisse un’autobiografia che lo rese celebre forse più di quanto non abbiano fatto il lascito delle sue opere. Occorre dire però che per quanto riguarda la saliera di cui scrivo e la sua “Tazza Rospigliosi”, oggi al Metropolitan di New York, il fatto che ci siano giunte integre dopo quasi cinque secoli dalla loro fabbricazione è un vero miracolo.
Nel tempo, con il manifestarsi di varie traversie economiche dei possessori di tali capolavori, accadeva spesso che questi oggetti fossero fusi per recuperarne il valore venale, così quello artistico andava di conseguenza a disperdersi con il liquefarsi dell’opera. Riuscite a immaginarle quanti capolavori si siano “sciolti” nella vacuità delle miserie umane?
È così e per questo che la nostra saliera, all’epoca del furto, fu valutata nell’ordine dei 50 milioni di Euro, ma fu evidentemente sottostimata. Credo che oggi, all’asta, a fronte delle follie dei Pluto-Ego-Star di turno, capaci di pagare delle fortune per opere di dubbia autenticità, per questo capolavoro certo e unico nel suo genere, pagherebbero almeno sei sette volte tanto quanto stimato nel 2003
L’opera in sé è alta 26 cm e poggia su un disco ovale di ebano lungo 33,5 cm.
Cellini l’aveva progettato molto tempo prima, quando era a Ferrara, su richiesta del cardinale Ippolito d’Este e a soddisfazione del suo raffinatissimo gusto. Tuttavia, malgrado il prestigioso committente, lo stesso cardinale dovette subito rendersi conto che l’opera gli sarebbe costata una fortuna. Così, il Cellini fece solo un modello in cera che purtroppo non ci è pervenuto.
Sarebbe poi accaduto il disastro del Sacco di Roma, dove nel 1527 anche il nostro artista si trovò nel mezzo di quello scempio. A sentir lui, egli visse quell’evento da protagonista furioso, addirittura uccidendo niente meno che il connestabile Carlo III di Borbone ovvero il comandante delle truppe imperiali. Ma, vista la considerevole immodestia dell’artista è lecito nutrire qualche dubbio sulle sue imprese. A confronto, persino la vita di Caravaggio impallidisce a fianco di quella di Cellini.
Il Papa Paolo III lo perdonò più volte, anche di gravi delitti, sino a dichiarare: “che uomini unici nella loro professione come Benvenuto non debbono essere obbligati alle leggi”.
Comunque, accadde che alla fine degli anni trenta del Cinquecento, il nostro avventuroso artista comprese che la sua vita a Roma non fosse più al sicuro, pertanto decise di trasferirsi alla corte di Francesco I come molti altri artisti italiani che vissero quel drammatico periodo. Ma Benvenuto, dopo un inizio promettente, ben presto si trovò in conflitto con gli altri numerosi artisti per cui tornò a Firenze dove concluse la sua vita, in una condizione molto modesta.
In Francia dovette trovare le risorse per portare a compimento il suo capolavoro. Francesco I gli mise a disposizione la considerevole somma di 1.000 scudi d’oro a 22 carati, circa tre kg e mezzo di materia prima con la quale costruì un tale capolavoro.
È un’opera costruita sul rapporto di due figure. Il dio dei mari, Nettuno, con il suo tridente che poggia su dei delfini alati mentre domina l’oceano. Tiene il tridente come a dirigere un piccolo vascello che costituisce il contenitore vero e proprio del sale. Dalla parte opposta e di fronte, si staglia la figura di Cerere o della dea Gea o Tellus, emblema della Terra. Ha una cornucopia da cui esce un tempietto sul quale poggia la figura femminile della dea dell’Abbondanza.
Cerere e Nettuno appaiono in un rapporto molto sensuale. La dea si accarezza il seno con la mano sinistra e ha le gambe allungate che si intrecciano allusivamente con quelle del dio. La loro intesa erotica sta a simboleggiare l’unione della Terra con il Mare dalla quale il sale trae origine: elemento preziosissimo per la vita e assunto a simbolo di fede e di alleanza fra Dio e l’Uomo (Mt 5,13).
È probabile che, in origine, proprio la preziosità del sale sia stata la motivazione attraverso la quale il cardinale Ippolito d’Este fu spinto a commissionare a Cellini l’opera, per sottolineare l’importanza economica che questo bene rappresentava per Ferrara. Il Ducato godeva, con le sue saline di Comacchio, di una rendita piuttosto cospicua, tale da far gola ai molti potentati limitrofi. Basti pensare che, alcuni decenni prima, nel 1482-83, Venezia scatenò persino una guerra per sottrarre agli estensi il dominio del commercio di questo prodotto.
Ma, tornando al nostro gioiello, notiamo come la dea Cerere sia seduta su una sorta di cuscino da cui spunta una proboscide, quindi un elefante. Inoltre, a fianco della dea, a destra, si erge un tempietto su cui si appoggia una figura nuda emblema dell’Abbondanza. Questo tempietto conservava il pepe, per cui la figura della testa dell’elefante doveva essere un riferimento all’India, da cui proveniva la preziosa spezia.

Tutta la struttura poggia su un disco di ebano nel quale sono ricavate delle figure dorate. Sono le rappresentazioni simboliche del giorno della notte dell’alba e del crepuscolo, evidentemente tratte dalle michelangiolesche tombe medicee presso la sacrestia nuova di san Lorenzo.
Nei quattro ovali che ornano la base, si notano altrettanti putti che soffiano e che rappresentano i venti cardinali.
La composizione, nel suo complesso appare maestosa, potrebbe essere il modello per una bellissima fontana posta al centro di una delle tante piazze italiane. L’equilibrio formale delle figure, la loro imponenza plastica, sebbene di dimensioni così ridotte, appare evidente, specialmente se si vede l’opera dall’alto, ovvero dal punto di vista che evidentemente dovevano avere i commensali quando la saliera era posta sulla loro tavola.
Malgrado siano sedute, una a fronte dell’altra, Cellini ci offre una scena di grande plasticità, quasi di movimento, pare di essere al cospetto di una danza alla quale anche la intera struttura pare partecipare assecondando l’armonia delle figure.
Quando metto la mia saliera in tavola, da € 14,99 a volte mi vien da pensare a questo gesto quotidiano così semplice che, cinque secoli fa, riuscì ad ispirare un così magnifico capolavoro di bellezza e armonia.
(Roberto Cafarotti)

Benvenuto Cellini (1500-1571)

Saliera di Francesco I, 1540-33, opera plastica in ebano e oro smaltato, dim 26 x 33 cm.
Kunsthistorisches Museum, Vienna

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