La Resistenza

di Marco Di Giovanni

Henri Michel, nella sua basilare ricostruzione complessiva della parabola della Resistenza, La guerra dell’ombra, richiamava un orizzonte buio e disperato tra l’estate e l’autunno del 1940, quando le prime forme di opposizione si alimentavano anche della “rivincita dell’umorismo” di fronte ai primi inciampi degli occupanti nazisti, dominatori del continente ed apparentemente invincibili. Come l’anziana donna ucraina che, nel nostro inizio di marzo, regalava i semi di zucca al russo invasore o quella, autentica incarnazione delle “leggende di guerra”, che regalava agli affamati occupanti una torta farcita al veleno…. Cronache del nostro presente ucraino.
La dignità degli sconfitti prevaleva ancora sulla speranza, linfa vitale difficile da alimentare in quel tempo, se non aggrappandosi alle parole di Churchill sulla resistenza dell’Impero siano ai suoi più estremi confini, o ai coraggiosi appelli di un ancor giovane colonnello della Francia sconfitta, Charles De Gaulle, da Radio Londra. Nessuna certezza e disponibilità al sacrificio, queste la basi da cui partiva la strada della Resistenza in Europa, capace anche di proporsi e diventare “europea”.
Gli aiuti sarebbero arrivati più tardi, intrecciandosi con la speranza legata all’allargamento della guerra e ai fallimenti dell’Asse, che avrebbero collocato le Resistenze entro uno scenario militare e politico più promettente. La luce si proponeva lentamente e non sempre continua, mescolandosi alle molte disperazioni della guerra. Nessuna via facile e segnata per una lunga fase, e in un immenso mare grigio. La scelta, secondo la formula di Claudio Pavone, restava un rischio, anche sul piano etico, e insieme un imperativo i cui riferimenti potevano essere diversi e intrecciati ma tutti profondamente vissuti: la patria, la classe, la dignità umana vissuta come ultimo appiglio contro la volontà di distruzione e un dominio maligno e devastatore: allora come oggi.

In molte circostanze la Resistenza, che parte dalla risposta all’invasione, scopre la sua base valoriale – in senso molto lato “ideologica – anche, semplicemente, in chiave oppositiva:
rifiutare il modello politico imposto dall’invasore che occupa, distrugge, letteralmente destruttura anche alla luce di una sua visione politico-ideologica.
E’ proprio questo il caso Ucraino, di fronte a un’aggressione di sapore tragicamente antico – novecentesca e brutalmente impositiva, orientata a sanare le ferite del XX secolo nella storia russa a partire da un modello imperiale e identitario ancora più antico: imponendo la sua presa coloniale.
E come sempre la Resistenza si alimenta della brutale violenza dell’occupante che oggi torniamo a vedere gestire i territori secondo modelli epurativi che scivolano ed “escalano”, tragicamente trasformando la pratica della mattanza seriale dei soggetti individuati come pericolosi, (la classe dirigente sui territori, i sindaci protagonisti di questa guerra di autoprotezione delle comunità sul terreno) in quella di un massacro vendicativo e discrezionale.
Una violenza propriamente “coloniale” che combina predazione sistemica su larga scala e rapina spicciola, spostamento in massa della popolazione e pratica individuale (ma potenzialmente sistematica) dello stupro.
E’ una violenza che non lascia vita nel domani di chi si arrendesse, e i resistenti, ieri come oggi, lo sanno. Oggi una guerra “sporca” e appunto dai tratti coloniali, senza la reciprocità di una guerra civile, come vorrebbero le velenose formule di chi allude all’equiparazione delle derive della violenza.

A volte, e i tempi si ripetono nel momento estremo, l’azione può avere anche il valore di una testimonianza, il rifiuto della resa che opponga all’aggressore lo specchio di valori che lo smentiscono.
La rivolta del ghetto ebraico di Varsavia, nel 1943, non poteva sperare che di ostacolare in forma estrema la deportazione finale, salvando eventualmente solo pochi fortunosi fuggiaschi a costo della vita di tutti gli altri. Ma dimostrava che gli ebrei non erano solo poltiglia sacrificale.
Una scelta appunto che gli oppressi hanno tutto il diritto di esercitare.

Dilemmi alti e terribili che appartengono agli scenari estremi della Resistenza, e su questo come su altri terreni (ad esempio la legittimità dei combattenti) le Resistenze hanno avuto critici e detrattori, e non stupiscono i veleni che personaggi come Fabio Mini nel nostro tempo disseminano.
Ma oggi, di fronte al solido intreccio di Resistenza e speranza, che l’Occidente può alimentare con aiuti e solidarietà dirette, stupisce che scompaiano nella confusione del bla bla televisivo e giornalistico il contesto conflittuale e il profilo etico della lotta da cui sono scaturite le nostre democrazie, i cui agi e sicurezze diamo evidentemente troppo per scontati, e alle quali appunto gli ucraini ambiscono.
Ma qui davvero la memoria si appanna ed abbandona la Storia, lasciando il campo ad acrobatiche e inconsistenti distinzioni di comodo e ad amaramente comiche ricostruzioni di un passato consapevolmente fondativo.

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