La logica delle parole

di Patrick Sériot 

(Professore onorario di Linguistica Slava all’Università di Losanna)

«L’incorporazione delle terre russe occidentali in uno stato unitario non era semplicemente il risultato di decisioni politiche e diplomatiche. Era sostenuta da una fede comune, da tradizioni culturali condivise e- vorrei sottolinearlo ancora una volta- dalla somiglianza linguistica».

Vladimir Putin, «Sull’unità storica dei Russi e degli Ucraini», 21 luglio 2021

 

Cosa ha a che fare la lingua con la geopolitica? Comprendere la visione del mondo di Vladimir Putin presuppone che ci si interessi da vicino a tale questione, che attira poco l’attenzione in Europa occidentale, ad eccezione della Catalogna. Il russo e l’ucraino sono lingue differenti ma vicine, come sono vicini lo spagnolo e l’italiano, ma meno che il ceco e lo slovacco, lingue ufficiali di due Stati differenti, e meno ancora che il serbo e il croato, praticamente identici.

Dopo secoli d’interdizione e di repressione della lingua ucraina nella Russia zarista, poi di russificazione delle norme dell’ucraino sotto Stalin, in grandissima maggioranza i cittadini ucraini sono bilingui, o almeno comprendono perfettamente l’una e l’altra lingua. Molti di loro parlano un misto delle due lingue, chiamato surzhyk, o passano da una lingua all’altra in funzione degli interlocutori o della situazione. È dunque impossibile fare delle statistiche affidabili sulla ripartizione delle lingue, anche se la questione della lingua fa parte dei censimenti della popolazione. Il governo ucraino è stato forse maldestro nell’imporre l’ucraino come sola lingua ufficiale e di trasformare il russo in lingua straniera, alla stessa stregua che l’inglese, ciò che ha aiutato la demagogia putiniana, che ha insistito sulla «repressione» di cui sarebbero vittime i «Russi» in Ucraina. Orbene, «i Russi» in Ucraina non sono «dei Russi». Una sfumatura semantica fondamentale deve essere presa in considerazione: in Europa orientale, alcuni paesi fanno differenza tra «nazionalità» e «cittadinanza».

La cittadinanza è l’appartenenza a uno Stato (definizione politica, non essenziale), la nazionalità è una identità etnica (essenziale, inalienabile). La nazionalità si definisce, tra l’altro, dalla lingua. Sulle carte d’identità sovietiche era scritta la «nazionalità»: russa, uzbeka, lettone, ebraica, ucraina. Nel 1975, Aleksandr Isaevič Solženicyn è stato privato della propria cittadinanza sovietica, ma gli sbirri del KGB non avrebbero mai avuto l’idea di privarlo della sua nazionalità russa, idea priva di senso. Questa doppia appartenenza rimane nella Russia post-sovietica (anche se non è più menzionata sulle carte d’identità), ma non in Ucraina, dove tutti i cittadini sono ucraini allo stesso titolo di quelli la cui madrelingua è l’ungherese o il rumeno. Secondo la logica del punto di vista russo, gli Svizzeri romandi, in quanto francofoni, sono dei cittadini elvetici di nazionalità francese, che sognerebbero di tornare un giorno alla madrepatria, come i Ticinesi, dei cittadini elvetici di nazionalità italiana, ingiustamente separati dalla madrepatria, logica irredentista. Di converso, i Bretoni, i Baschi e gli Alsaziani sono, sempre in base a tale punto di vista, dei cittadini francesi, di nazionalità bretone, basca o alsaziana.

Questa definizione d’identità, o di appartenenza di un individuo a un gruppo, risale all’opposizione tra la definizione francese, giacobina, politica, della nazione e la definizione tedesca, romantica, culturale, da cui la differenza tra Gemeinschaft (comunità) (essenziale, naturale) e Geselleschaft (società) (superficiale, non essenziale), un tema ricorrente dell’ideologia völkisch (nazionalista) all’inizio del XX secolo.

Qualsiasi confronto deve essere gestito con precauzione, ma uno è necessario: nel 1938, per Hitler i cittadini cecoslovacchi di lingua tedesca erano «dei tedeschi», il cui territorio doveva rientrare nel grembo della nazione. Per Putin, i cittadini ucraini di madrelingua (o di lingua principale) russa, sono «dei Russi», prima di essere dei cittadini ucraini. È quindi logico, in questa ideologia determinista, che il territorio in cui (i russi) sono in maggioranza, ritorni alla madrepatria, da cui non avrebbero dovuto mai essere separati. Ma questa logica ha un costo: il totale disprezzo di ogni scelta democratica, di ogni autodeterminazione, poiché, in tali condizioni, l’individuo non esiste al di fuori del gruppo al quale si suppone che appartenga: «la nazione» in senso etnico.

Il discorso di Putin non è razzista in senso biologico, ma etnicistico. Ora, alla fine, la differenza non è grande, poiché per lui la democrazia è solo una debolezza decadente, un fattore di divisione, e conta solo il determinismo etnico. Sciovinismo, xenofobia e disprezzo del diritto ne sono l’espressione più evidente.

Quando Putin pretende di difendere quelli che chiama «nostri concittadini» o «nostri compatrioti» oppressi in Ucraina, è indispensabile decodificare queste parole demagogiche, il cui significato primo è stato deviato. Ritenere che l’appartenenza etnica prevalga sull’appartenenza dovuta alla cittadinanza è una ideologia politica dannosa, che si basa sull’idea di pseudo-naturalismo, cioè che ogni russofono, qualunque sia la sua cittadinanza, è allo stesso tempo in debito della sua profonda essenza allo Stato russo. La Lettonia (componente dell’Unione Europea), dove risiede una consistente minoranza russofona, sarà il prossimo obiettivo della ricostituzione dell’Impero sovietico? La fragile Moldavia, quasi bilingue, non è ancora più in pericolo?

(Articolo apparso nel quotidiano Le Temps del 1° marzo 2022)

(Traduzione di Armando Pepe)

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