La lettera pastorale dell’arcivescovo di Torino Roberto Repole
di Fulvio Ferrario
E se gli evangelici imparassero qualcosa dai vescovi cattolici?
L’articolo di “Avvenire” sembra annunciare cambiamenti piuttosto radicali nelle Diocesi cattoliche di Torino e Susa. Tale elemento, unito a un rapporto amichevole abbastanza lungo con l’arcivescovo Roberto Repole, mi ha indotto a leggere il testo della sua lettera pastorale (link in calce al presente post).
Dal punto di vista strettamente teologico, colpisce, anche se non stupisce, l’enfasi, non tanto retorica (il linguaggio, anzi, è sobrio), ma sostanziale, sul ministero presbiterale, cioè quello del prete. Senza prete, niente chiesa “in senso pieno”. Più ci penso, più mi convinco che proprio il dialogo ecumenico e la reciproca amicizia mettono in luce che cattolicesimo e protestantesimo sono modelli radicalmente diversi di comprensione della fede cristiana e il cuore della differenza è la dottrina del ministero. Sembra un semplice capitolo tra altri, ma da lì deriva tutto il resto: la chiesa romana è “presbiterale” (cioè: clericale) per essenza (del resto, lo dice anche la Lumen Gentium, a modo suo).
Detto, con tutta la chiarezza possibile, QUESTO, è molto interessante vedere che il vescovo Repole propone con chiarezza e semplicità una serie di misure piuttosto significative circa l’assetto concreto delle strutture della sua chiesa. Anche su questo, naturalmente, bisogna “fare la tara”, come si dice: non è facile tradurre in pratica questi propositi. Intanto, però, ci si prova, con notevole lucidità.
La centralità di Cristo è articolata pastoralmente in tre dimensioni: ascolto della parola, eucaristia, fraternità, cioè vita ecclesiale. Come praticare tali priorità sul piano anche organizzativo? La lettera tenta alcune risposte, per nulla banali.
Come pastore evangelico, osservo che non accade spesso, nella chiesa della quale faccio parte, che una riflessione pastorale sia condotta con questa linearità. In secondo luogo, che le proposte operative sono precise e discretamente ambiziose. Se penso all’immobilismo strutturale di una chiesa evangelica che dice, e anzi si vanta, di essere “semper reformanda”, arrossisco un po’.