La guerra è brutta

di Helena Janeczek

Ieri mentre parlavo un po’ con mio figlio mi sono tornati in mente i bei tempi passati, quando lavoravo a “Le rondini di Montecassino” con il sottofondo degli spari e delle bombe di “Call of Duty” che provenivano dallo schermo del soggiorno.

Ricordo la volta che, a suo padre preoccupato per quei videogiochi così violenti, il ragazzino rispose con la frase definitiva: “Pa’, lo so che la guerra è brutta, ma il gioco è bello!”

A questo c’è poco da aggiungere, ma ieri mi pare di aver colto un nuovo aspetto. Insieme agli altri ragazzini, lui imparava attraverso gli sparatutto a conoscere le armi e il senso della “missione”, cosa che nella formazione dei maschi avveniva anche prima dell’arrivo della Playstation. Invece io, che ne ero a digiuno, dovevo capire tutto di ciò che era accaduto in una battaglia reale.
Un’offensiva durata tanti mesi e, in realtà, divisa in quattro battaglie, ma comunque una sola. Per di più concentrandomi solo un segmento – quello all’altezza di Cassino – del fronte che andava dal golfo di Gaeta fino all’Adriatico abruzzese. E per riuscirci mi sono servite sia le cartine militari che le diverse “passeggiate” sulla linea del fronte che mi davano un senso fisico delle distanze e del terreno. E poi i resoconti, le memorie e testimonianze, i saggi, i documentari.

È stata un’impresa difficilissma che però mi ha insegnato che la guerra vera non somiglia né a un videogioco né alla tavola-mappa con i carrarmatini del Risiko, con cui ho sentito paragonare le letture geopolitiche che vanno per la maggiore. Non solo perché queste ultime non tengono conto degli esseri viventi che la fanno o la subiscono, ma anche perché trascurano altri fattori: gli errori militari (a tutti i livelli), le condizioni del terreno e metereologiche, il gran casino della logistica, il famoso “morale delle truppe” (e in una guerra totale anche dei civili).

Su Twitter seguo qualche esperto militare di quell’area che guardando la guerra da quella prospettiva è molto più incerto di come stia andando e come potrà andare, salvo ribadire che diventerà ancora più orrenda, proprio perché non va tanto liscia.

E allora ho pensato che, nel prendersi a schiaffi di “pacifisti comodi” e “gente che si è messa l’elmetto” (polemica che non mi appassiona), il prestigio riconosciuto a un discorso competente sulla guerra sia passato agli esperti di geopolitica. Finiti i tempi in cui la virile l’esaltazione militaristica di antico stampo possa esternarsi a pieno petto, è subentrato uno sguardo freddo e dall’alto che ricciccia l’idea maschile di controllo.

Sono addolorata e angosciata, anche per ciò che sta accadendo in Russia. Ma se non voglio sposare quell’impostazione del discorso così poco umano è anche perché credo che sia spesso illusorio.

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