La Berlinale

di Gianluca Falanga

Ieri è cominciata la Berlinale e mi sono ricordato che è una vita che non vado al cinema. L’ultima volta è stata sicuramente nel 2019, andai a vedere un film che ricordo mi lasciò tramortito per giorni e mi è rimasto incastonato nella memoria. Il film si chiama Und der Zukunft zugewandt, con la bravissima Alexandra Maria Lara nel ruolo di protagonista. Il titolo era il primo verso dell’inno nazionale della DDR, quello con la melodia di Hanns Eisler e i versi di Johannes Becher (ma il testo fu poi soppresso perché accennava all’unità della nazione tedesca ed era quindi in contrasto con l’agenda politica di Honecker, dal 1971 l’inno veniva suonato solo in versione strumentale): Auferstanden aus Ruinen (Risorta dalle rovine) / und der Zukunft zugewandt, (e protesa al futuro) / laß uns dir zum Guten dienen, (permettici di servirti per il bene) / Deutschland, einig Vaterland. (Germania, unica patria.)

Il film racconta la storia di tre donne, tre comuniste tedesche, che nel 1952, sopravvissute a oltre dieci anni di gulag in Unione sovietica, fanno ritorno in Germania. Tutte e tre erano emigrate giovanissime negli anni trenta nella Patria del socialismo per cercare protezione dalle persecuzioni naziste e realizzare i loro ideali politici, ma erano incappate nel tritacarne del Grande Terrore staliniano. Accolte nella DDR come “compagne”, almeno così sembra all’inizio, ricevono dalle autorità una casa e un lavoro per rifarsi una vita. In cambio si pretende che firmino un documento col quale si impegnano a mantenere segreto (anche coi familiari più stretti) dove sono stati e che cosa hanno vissuto durante la loro assenza. Riluttanti, due di loro si convincono a firmare, perché ancora si sentono legate agli ideali di gioventù e credono vi sia ora l’occasione per correggere gli errori costruendo il socialismo in Germania. Una sola si rifiuta (“non sono più vostra compagna”, dice restituendo il foglio al funzionario) e abbandona la DDR. Antonia Berger, la protagonista, si ambienta rapidamente, ma è tormentata dal suo trauma, a Workuta ha perso il marito, freddato dalle guardie del campo mentre cercava di andarle a fare visita di notte nelle baracche del settore femminile, e la piccola figlia Lydia, nata nel gulag, è gravemente malata ai polmoni. Il vicino di casa, un pittore viennese comunista, la importuna con continue domande. Apparentemente è solo curiosità, ma Antonia capisce che stanno verificando se mantiene l’impegno del silenzio.

Due uomini si prendono cura di lei (e se la contendono): un giovane medico originario di Amburgo, che ha scelto di vivere nella DDR per motivi politici («è la Germania migliore, la Germania antifascista»), e un altrettanto giovane funzionario di partito, che vuole fare carriera nella nomenclatura. Entrambi sono molto ambiziosi, credono che la DDR sia l’opportunità storica di creare in Germania una società più giusta e umana per riscattare il recente passato nazista.

I due uomini reagiscono in maniera molto differente quando, nel corso della vicenda (sullo sfondo la notizia della morte di Stalin nel marzo 1953) vengono a conoscenza del segreto di Antonia. Il funzionario è prima incredulo, poi la rimprovera («La rivoluzione non è un pranzo di gala!», «Non si fa la frittata senza rompere le uova!») e le raccomanda di mantenere il silenzio se non vuole mettersi nei guai. Il medico è invece furioso e deluso, la sua immagine intatta del socialismo va in frantumi e in crisi decide di tornare ad Amburgo. Vorrebbe che Antonia venisse con lui, ma lei rifiuta: andare all’ovest, dice, vorrebbe dire tradire il sacrificio immenso che ha fatto per sopravvivere, la memoria di suo marito e di tanti suoi compagni di lotta uccisi per la causa del comunismo.

Avendo violato il patto del silenzio, Antonia viene prelevata dalla Stasi. La scena del suo interrogatorio è monumentale, in pochi istanti e scambi di battute esprime tutto il dramma di un secolo, un nodo che ancora oggi facciamo difficoltà a sciogliere. Quando Antonia comincia a balbettare le parole “verità”, “lager” (in tedesco il termine si usa sia per quelli nazisti che per quelli staliniani) e “ingiustizia”, il funzionario della polizia segreta perde le staffe e, mostrandole la gamba che ha perso per le violenze subite durante la sua prigionia nel lager di Buchenwald, le urla in faccia: «Questa è l’unica verità! Questi erano i lager!» Antonia è tramortita, ma trova ancora la forza di insistere, ciò che ha subito, dice, non può essere negato o taciuto, è stata condannata senza colpe. Come può sconfessare se stessa, ignorando la verità? La risposta che le viene data è una rasoiata, un graffio sulla lavagna: «la verità è ciò che è utile alla nostra causa».

Alla fine Antonia, presto rilasciata, distrugge il diario che ha tenuto di nascosto durante l’internamento a Workuta. Riabbracciando la figlia e la sua anziana madre, dice per rassicurarle: «adesso ricominciamo da capo». L’ultima scena del film mostra la donna 36 anni dopo, la sera della caduta del Muro di Berlino, mentre declina freddamente l’invito di un’euforica vicina a scendere in strada a festeggiare. L’appartamento è ancora lo stesso che le hanno dato nel 1952. Alle pareti le stesse fotografie di trent’anni prima, come se il tempo sia rimasto fermo a quell’iniziale entusiasmo della ricostruzione, un fiore che è nel frattempo si è appassito e ora è morto. Al telefono con il medico di Amburgo, col quale è evidentemente rimasta in contatto, pronuncia solo queste parole: «Lo sai cosa significa per me». Si capisce perfettamente cosa intende Antonia: il tramonto dell’illusione del socialismo umano nella DDR, al quale ha creduto fino alla fine. Nonostante tutto.

Tutto il film è pervaso dalla ricerca di un senso di ciò che accade, un immenso PERCHÉ, che pretende disperatamente una risposta e fatica a trovarla. Il perché si fa breccia in diversi passaggi cruciali del racconto: perché fare strage di comunisti come Antonia, militanti leali e devoti, perché Antonia resta fedele all’idea nonostante l’ingiustizia che ha patito, perché non l’è permesso di dire a sua madre dove ha trascorso gli ultimi dieci anni, perché continua a credere nella DDR fino all’ultimo, nonostante i “compagni” si rifiutino di ascoltarla. Il fallimento del socialismo in Germania sembra stare tutto in quella risposta che non viene data, in quel silenzio imposto con la forza, in quell’oblio che soffoca la verità e ne tarla le fondamenta.

Superfluo aggiungere che si tratta di una fiction, ma il regista Bernd Böhlich, cresciuto nella DDR, vi ha elaborato storie vere, testimonianze raccolte fra i tanti comunisti tedeschi scampati al nazismo e sopravvissuti al gulag e poi costretti al silenzio nella DDR per non essere ripudiati una seconda volta. Raramente i film – e ancora più di rado se trattano di storia – riescono a riprodurre porzioni di realtà in tutta la loro complessa ricchezza, ambivalenza, incoerenza. Non so dire se questo film ci sia riuscito, ma di una cosa sono sicuro. Ti mette di fronte a qualcosa che grida, che invoca attenzione e cura nell’essere affrontato, una voce ingabbiata che avrebbe molto da dirci, se solo avessimo la serenità di ascoltarla, accogliendo i fatti della storia per quello che sono: complessi, ambivalenti e incorenti, come lo sono gli uomini.

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