Indagine su un cittadino al disopra di ogni sospetto

di Claudio Vercelli

TORNARE SUI CLASSICI, RIVEDERE I CAPOLAVORI: UN FILM SU COSA E’ PER DAVVERO IL POTERE – Che sia un capolavoro, l’ho sempre pensato. Ieri sera l’ho rivisto in dvd (mi piace, al pari di quanto già faceva mio padre, avere la collezione materiale dei film). Sarà la quindicesima volta che lo guardo. Non mi stanca mai. Si potrebbero sezionare singole scene e lavorarci sopra per un intero corso universitario. Oltre ad una solida sceneggiatura, e al ripetersi costante del vero registro espressivo di Elio Petri – l’alternanza continua tra reale e grottesco, tra dramma e parossismo, tra tragedia e trasfigurazione – è una vera e propria dissezione anatomo-patologica dei rapporti di potere quotidiani. Petri non punta tanto alla “denuncia” (un criterio collaudato in quegli anni, capace di raccogliere facili assensi ma destinato a non lasciare troppe tracce di sé nel momento in cui l’onda lunga si sarebbe andata esaurendo) bensì allo scavo antropologico. Per questo i suoi film sono più che mai attuali. Attraverso la metamorfosi degli uomini in maschere, il registra entra nella viva carne delle sudditanze, ossia in quella microfisica del potere che somma costantemente dipendenze a disemancipazione, angoscia a subordinazione, cupezza a sfruttamento, reggendo il tutto – poi – l’impalcatura della violenza, istituzionale e non. L’ “Indagine” è il concentrato di ciò, come di altro ancora, risolto in una ricerca, anche di taglio stilistico, di altissimo livello. Molto si regge sulla proverbiale interpretazione di un eccelso Gian Maria Volonté, al massimo delle sue già eccezionali possibilità (non mi ha mai deluso, francamente), su una bellezza classica, scultorea ma anche a tratti morbosa quale quella di Florinda Bolkan, su un côté di “gregari” che giganteggiano nelle loro rispettive parti (Orazio Orlando, da me sempre molto apprezzato; il grande Salvo Randone, nella parte dello “stagnino” terrorizzato; Aldo Rendine, il vessato Nicola “Panunzio” e così via). Di tutte le figure, quella che più mi intriga, da sempre, è il prefetto/questore, interpretato da Gianni Santuccio: una sorta di presenza tra le righe, quasi fantasmagorica che, tuttavia, deve convalidare la perversione personale del “dottore” (il protagonista, lo stesso Volonté, del quale non si dice mai quale sia la vera funzione formale raggiunta nell’organico interno), in rapporto all’esigenza di autoriproduzione corporativa dell’organizzazione di repressione. Più che un film sulla polizia (l’allora Corpo delle guardie di pubblica sicurezza) è un riflessione sulla capillarità e la pervasività di ciò che è matrice strutturale di diseguaglianze. Il rimando all’omosessualità come ad una “colpa” da punire penalmente, ad esempio, non è solo un riscontro storico bensì un indice della concezione del mondo allora (e a tutt’oggi, in fondo) vigente. Antropologia pura, quindi. Dell’oggi. A volere dire che “sicurezza” e dipendenza sono interfacciate…

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