il Risorgimento a Reggio Calabria

di Armando Pepe
Fabio Arichetta nell’agile volumetto “La Calabria Ulteriore Prima” raccoglie sette brevi saggi di storia locale attinenti al territorio di Reggio Calabria in età risorgimentale; pur essendo separati seguono un medesimo filo conduttore, rispondendo a delle esigenze di ricerca originali. Come rileva Antonino Romeo nella prefazione, l’Autore «ha il merito di averci portato ancora una volta a riflettere su questi temi e su un’epoca che rimane fondamentale non per avviare sterili recriminazioni, ma per capire l’origine dei nostri problemi di meridionali, condizione necessaria per avviare una sempre rinviata ma oggi davvero indifferibile soluzione» (p. 10). Il primo saggio riguarda la figura del canonico Paolo Pellicano, religioso di profonda cultura, nato a Reggio Calabria il 1° marzo 1813, ordinato sacerdote nel 1836 «ispiratore e guida del moto insurrezionale del 1847, che avrebbe dovuto infiammare il Sud e anticipare il più noto moto del 1848, scoppiato per ottenere la concessione degli statuti in alcuni Stati della penisola; ma il moto fu soffocato nel sangue e si concluse con l’assurdo epilogo dell’uccisione di Domenico Romeo e l’arresto dei suoi compagni» (p. 14). Poco dopo, con prosa secca, essenziale, l’Autore, riallacciando il filo di un discorso mai interrotto, riprende a dire che il «Canonico Pellicano, durante il moto del 1847, ha solo 36 anni ed è già guida carismatica e spirituale dei congiurati; è laureato in Diritto Civile e Canonico all’Università degli Studi di Messina, condannato a morte dopo il moto, si salvò proprio grazie alla sua condizione di sacerdote. A Napoli, durante il periodo costituzionale, fu chiamato a redigere un disegno di legge per la riforma dell’istruzione ma contemporaneamente rimase vittima di un grave attentato e, nonostante fosse stato colpito con oltre venti baionettate, rimase miracolosamente salvo, tanto che quando morì, il 16 marzo 1886, si fece seppellire proprio con il panciotto che indossava quel giorno, dilaniato dalle pugnalate» (p. 17). Il moto del 1847 è ampiamente delineato nelle sue linee essenziali e coordinate spazio-temporali, attingendo proficuamente dal fondo documentario dell’avvocato Francesco Saverio Vollaro, patriota e radicale, in deposito presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria; un avvocato fieramente ancorato ai valori risorgimentali, tanto che si inserì a pieno titolo nel processo unitario, tanto che «il battaglione volontari napoletani prese vita il 13 aprile 1848 anche per iniziativa del reggino Francesco Saverio Vollaro, presentatosi a Napoli innanzi al Ministro segretario di Stato della guerra e della marina, dopo aver raccolto nelle liste di arruolamento circa seicento volontari» (p. 32). Il battaglione napoletano si riempì di gloria quando, appena un mese dopo, il 13 maggio 1848, «con grande coraggio e sprezzo del pericolo, respinse un reggimento austriaco e di lì a poco, partecipò alla battaglia di Goito per difendere il ponte sul Mincio a fianco dei volontari toscani» (p. 34). Un caleidoscopio di regioni diverse, di giovani uomini che, disperatamente, speravano in una patria ricomposta e non seconda a nessuna nel complicato quadro europeo. Negli altri capitoli, abilmente governati, si parla sempre di cose interessanti, che vale la pena sapere. Il convento del Crocifisso, fondato nel 1622 a Bianco, in provincia di Reggio Calabria, apparteneva all’ordine dei Frati Minori Riformati, una filiazione francescana, molto, se non eccessivamente, rigorista. Il generale catalano legittimista borbonico José Borjes a settembre 1861 «fu accolto dai frati in festa e dal superiore, padre Samuele di Siderno, che fece da mediatore presentando al generale il notaio Sculli di Natile di Careri e Francesco Violi di Platì. L’accoglienza riservata a Borjes finì per esporre i religiosi alla terribile rappresaglia della Guardia Nazionale. Il 20 settembre 1861, infatti, il convento venne dato alle fiamme dalla Guardia Nazionale e dai Bersaglieri» (pp. 61-62). Una dura reazione al brigantaggio e ai cosiddetti manutengoli. Il settimo ed ultimo capitolo spiega in parte l’eterna arretratezza del Sud, inserendosi in un discorso più ampio, che negli anni Settanta del secolo scorso portava avanti la scuola riunita attorno a Piero Bevilacqua.