Il principio

di Seia Montanelli

Quando lo dico tutti si stupiscono, forse perché si tende a considerare il mondo costantemente diviso in due, fondato sugli opposti, bianco e nero, caldo e freddo, buoni e cattivi (io per prima). Così se ami la letteratura, la storia, o l’arte è quasi impensabile che possano interessarti materie scientifiche: ebbene io amo la matematica, trovo che ci sia della poesia in un’ordinata ed essenziale risoluzione di una funzione, e mi piace il ritmo con cui si enunciano i principi della fisica. Per questo ho una passione per tutti quei libri che raccontano di teoremi e ipotesi e scoperte, o che divulgano raccontando come “Sei pezzi facili“ di Richard P. Feynman, “Alan Turing. Storia di un enigma” di Andrew Hodges o l’ultimo letto in ordine di tempo: “Il principio” di Jérôme Ferrari (Edizioni e/O, trad. it, di Alberto Bracci Testasecca).
Più complesso degli altri due, “Il principio” segue quasi la natura della legge fisica che ne è protagonista: il principio di indeterminazione formulato dal fisico tedesco Werner Heisenberg, alla base della fisica quantistica, da cui partì la ricerca per la realizzazione della bomba atomica. Così come il principio di Heisenberg sostiene che è impossibile conoscere nel medesimo istante e con la massima precisione la posizione e la quantità di moto di un elettrone, opponendosi alla rassicurante fisica tradizionale newtoniana, così il libro di Ferrari non solo è di difficile categorizzazione, ma esprime per tutto il testo un profondo senso di angoscia e un’assillante necessità di risposte.
Non è un romanzo e nemmeno un saggio, o un memoriale, o una biografia, ma una sorta di diario immaginario che riporta le conversazioni e le lettere di Heisenberg, e un dialogo a distanza di anni con un protagonista non definito, forse un alter ego dello stesso Ferrari, che rivolgendosi al professore dandogli del “lei”, “vous” in francese, non consente in italiano di capire subito a chi si riferisca. Poi il testo cambia quasi natura, e diventa chiara l’intenzione dell’autore: da un lato dimostrare che la scienza non è indipendente dal mondo in cui agisce e non può dichiararsi estranea alla società e alla storia in cui opera, e soprattutto cerca di ribadire che gli scienziati coinvolti sia nella costruzione della bomba atomica, così come negli esperimenti dei nazisti, non potessero in alcun modo definirsi esenti da colpe. Ferrari però non condanna del tutto Heisenberg, ancora in ossequio al “principio” non c’è una logica deterministica nella sua indagine, ma insinua il dubbio, si chiede e chiede “direttamente” anche al professore se ha collaborato per sabotare i nazisti o se invece ha scelto di restare in Germania e di non opporsi apertamente per salvaguardare il proprio lavoro e sé stesso. Non abbiamo risposte quindi: ancora una volta il principio di indeterminazione permea la narrazione. Con uno stile tutt’altro che lieve, una scrittura a tratti contorta, con lunghi periodi, un fraseggio spesso pesante, il testo sembra quasi restituire tutto il dissidio interiore e i dubbi morali di uno scienziato in grado di creare uno strumento morte così potente come la bomba atomica e di metterlo in mano a dei criminali.
Le pagine sull’orrore della guerra e il finale, poetico ma non consolatorio, valgono tutto il libro.

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