Il nastro bianco

di Claudio Vercelli

Bisogna conoscere appieno le tante cifre del cinema del regista austriaco Michael Haneke per comprendere i diversi significati, e soprattutto il valore, di un’opera impegnativa e interrogativa come «Das Weiße Band» (Il nastro bianco), una coproduzione franco-austro-tedesca del 2009, a tutt’oggi ancora circolante non solo tra i cinefili, trattandosi di una pellicola semmai vista e rivista da molti. Primo passaggio: sono più di due ore in un rigorosissimo bianco e nero. A tale riguardo è stato detto che, essendo «tagliente e atmosferico [nella] superba fotografia di Christian Berger è l’espressione più diretta di un segno filmico di rigorosa nettezza, di una messinscena sontuosamente austera (tra Bergman e Dreyer […]» (Michele Favara, 2009). La scelta è, al medesimo tempo, chiara e netta, in questo caso trascurando volutamente le eventuali sfumature. Soprattutto quelle di grigio. Altrimenti affidate ai ricordi volutamente offuscati della voce narrante, che si esprime per immagini, ipotesi e perplessità per non pronunciarsi appieno una volta per semrpe. Il film non è un manifesto programmatico, come tale di estrazione ideologica. Haneke – semmai – cerca di ricostruire la trama di una coesione sociale che è fondata essenzialmente sull’omissione: dei sentimenti, delle soggettività, della corporeità (ad esempio, le immagini di accoppiamenti sono tanto occasionali quanto animalesche). Non ci sono amore, eros, vita bensì i loro mortali simulacri. La trama, volutamente secca e scarna, gioca sulla somma di molteplici eventi, altrimenti incomprensibili attraverso la razionalità degli adulti, rivelando quindi, sia pure tra le righe, la feroce ribellione dei bambini e degli adolescenti ad un regime di morte che, di lì a poco, si sarebbe trasformato – per loro stessi – in una carneficina continentale, quella che si compie dal 1914 in poi. Non a caso, in un tale quadro, a comprendere la sottile tessitura della coesione del villaggio, fondata sull’inclusione subalterna (i giovani, che possono diventare adulti solo se piegano il capo) così come sul sacrificio (di sé, rispetto agli adulti, in attesa di consumarsi sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale), sarà esclusivamente l’unica persona che comprende il linguaggio dei non adulti, ovvero il maestro della scuola elementare. Che è, al medesimo tempo, voce narrante ed espressione di un ego che vorrebbe intendere ma non ci riesce, non almeno fino in fondo. Come ognuno di noi lo diventa, alla resa dei fatti. Haneke non offre mai un cinema consolatorio. Nel caso di Das Weiße Band i “piccoli” sanno essere feroci nei confronti dei “grandi”. Al limite del rivelarsi mostruosi, in quanto animati da genuini intenti omicidi. Poiché solo questi ultimi, secondo la logica dei primi, possono infrangere l’altrimenti implacabile presa di genitori non solo freddi al pari di estranei ma, soprattutto, ostili. Come è stato scritto, «i figli non sono che dei sintomi». Allora, al pari di oggi. Dentro questa cornice, basata sulla presenza costante della morte come accadimento tanto occasionale quanto non risarcibile, cade (e accade) tutto il resto, ossia: «la malattia di un villaggio protestante tedesco, negli anni precedenti alla Prima Guerra Mondiale: la gestione e l’abuso del potere, il soffocamento imposto dalla disciplina, l’annichilimento delle pulsioni, la costruzione rituale della facciata pubblica festiva di fronte alla violenza dominante l’ambito familiare/feriale. Famiglia e scuola sono luoghi di educazione coatta alle logiche del teatrino sociale: le aberrazioni, i rigurgiti irrazionali pregni d’odio pregiudiziale nei confronti del diverso, i nefasti segni di vendetta verso le costrizioni sono la faccia sporca della medaglia, il contrappasso proprio, naturale» (così Giulio Sangiorgio, 2009). Ed ancora: «in questa cronaca di atrocità private e di piccoli e meno piccoli crimini pubblici in un villaggio della Germania del Nord alla vigilia della Grande Guerra, Haneke traccia con implacabile precisione le dinamiche socioeconomiche e culturali di un microcosmo: la rigidità pericolante della struttura sociale (un’aristocrazia impotente e decadente, una piccola e media borghesia chiuse ed aggressive, il mondo contadino soggiogato e morente con qualche raro sprazzo di ribellione), l’ideologia protestante tesa al raggiungimento di un’equivoca purezza (ricerca ossessiva e annichilente fino al sadomasochismo), un sistema pedagogico coercitivo e [autoritario] (il mondo dell’infanzia che riproduce in una sorta di gioco perverso i meccanismi di sopraffazione del mondo adulto a danno dei deboli e dei diversi). Le ellissi, i fuoricampo, le dissolvenze in nero non sottraggono nulla, punteggiature di un discorso crudelmente lineare che però non si vuole né ascoltare né vedere» (Michele Favara, 2009). L’ordine, in questo caso, è soprattutto una perversione poiché si basa sulla completa distruzione di ogni forma di autonomia personale. Esattamente il codice che portò, nel Novecento, al trionfo dei totalitarismi. Per cortesia, non cercate in tutto ciò – tuttavia – l’esclusiva premessa del nazismo. Fin troppo banale (ancorché in fondo vero), alla resa dei conti, l’aderire allo stereotipo per il quale la «personalità autoritaria» (Theodor Adorno e Max Horkheimer nel loro esilio americano) genera la disposizione alla perversione collettiva. Sì, c’è anche questo, ma da sé non basta. Poiché il fuoco di Haneke non è il giudizio ma l’indizio; non è la confessione (di colpa) bensì la sconfessione (di responsabilità); non è il vedere, semmai l’incapacità di intravedere. Ciò che la pellicola ci restituisce è quindi una sorta di autistica incapacità di comprendersi. Omissione, menzogna, indisponibilità, mutismo, silenzi si incontrano con subalternità, omertà, incomprensione e quant’altro. In un gioco di costanti reciprocità. Ovvero, con il bisogno di continuare ad ingannarsi, anche a fronte dell’ecatombe incombente (quella della Prima guerra mondiale e, con essa, della distruzione del vecchio ordinamento imperiale). Il protestantesimo di Haneke – ma poteva benissimo essere il cattolicesimo bavarese – rivela così la sua natura di dispositivo annichilente. In quanto i figli hanno commesso le peggiori “bravate” (tra di esse, prima tra tutte, la gratuita ed efferata tortura di un loro coetaneo portatore di handicap, condannato proprio per ciò al rischio della cecità) ma gli stessi adulti, che non dismettono mai i loro abiti, neanche dinanzi all’evidente declino dell’«ordine» di cui sono garanti, risultano colpevoli del non volere vedere. Né, tanto meno, capire. Haneke, così facendo, introduce tutti i temi che sarebbero poi diventati tanta parte dell’altrimenti insensata lotta sui campi di battaglia della guerra del 1914-18, al pari – poi – della rivalsa totalitaria. Poiché, come è già stato scritto: «il cinema di Haneke si fonda sulla fertilità disorientante della contraddizione, la complessità rende opaca la realtà, la semplicità la annienta nella caricatura. Non c’è catarsi, in questo anaffettivo e monco affresco privo di fortissimo, perché la storia si ripete, ciclicamente, senza risoluzione. Il ghiaccio dello sguardo si sposa all’inelluttabilità della rassegnazione. La Storia – deprivata dall’evidenza di cause ed effetti, i contorni sfumati nel vago – non ha insegnato nulla» (ancora Sangiorgio). Un cinema senza illusione di un qualche risarcimento, quindi, A volerci quasi dire che è questo il vero suggello del tempo trascorso.

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