Il museo del Prado

di Roberto Cafarotti

Quando un appassionato d’arte, come me ad esempio, visita il Prado è un po’ come se andasse nel Paese dei Balocchi. Ci si va sapendo che si troveranno alcune delle opere più belle e famose della nostra storia. Per altro, viste e riviste nei libri, nei manuali, nelle pubblicazioni, quindi è naturale attendersi una certa emozione; è un po’ la stessa che si proverebbe andando a conoscere il nostro attore preferito o la rock star del cuore. Girando a sinistra, dopo l’ingresso nel monumentale edificio, si apre un reticolo di stanze e ad un certo punto, entrando in una di queste, ci si trova di fronte ad una parete occupata quasi interamente da un’opera mozzafiato: la Deposizione di Rogier Van der Weyden.

Ho avuto la fortuna di capitare nel momento giusto, con pochi altri visitatori. L’effetto che ha prodotto in me è stato completamente inatteso. O perlomeno, me l’aspettavo per Velasquez che amo immensamente e sapendo che la sua migliore produzione si trova lì, ma non per Van Der Weyden.

L’opera ha una propria dimensione fisica, materiale, che pare oltrepassare lo spazio stesso della tavola. Dà la sensazione di essere di fronte ad un muro di enormi amplificatori, quelli da basso elettrico, per i quali si sente pulsare l’aria: l’effetto è tachicardico. Così ho percepito questa inattesa emozione.

E’ una composizione perfetta, teatrale, con il corpo di Cristo che evoca una balestra, come dice Baricco, forse voluto a causa del committente: la Confraternita dei Balestrieri.

Nella bottega di Campin e del suo migliore allievo, appunto Rogelet de la Pasture, in vallone, detto Van Der Weyden in fiammingo, era una consuetudine dipingere le statue scolpite, o di terracotta o anche di cartapesta, per le sacre rappresentazioni della Pasqua. Ma altrettanto frequenti erano le recite teatrali in cui si replicava la Passione di Cristo. Questo quadro infatti è una rappresentazione teatrale, dove perfetti sono i costumi di scena e le pose sono studiatissime, con una quinta scenica così poco profonda da obbligare i personaggi a una disposizione compatta e trasversale.
Sembrano tutti precariamente affacciati, anche un po’ pericolosamente, al proscenio. Eppure, in quella recita così ben dipinta ed orchestrata – fra delicati panni preziosi di lana di fiandra e tessuti damascati di incredibile raffinatezza, fra scale di legno così ben raffigurate e improbabili cornici gotiche – si svolge una scena tragica dove il Dolore è ciò che dirige l’orchestra.

La Vergine ha lacrime cristalline che le costellano il volto e gocciolando narrano il suo inconsolabile tormento. Ma soprattutto quel braccio nudo di Gesù, meraviglioso e abbandonato, che scende come una freccia ad indicare il centro della Terra, il luogo dove il corpo di Cristo, oramai svuotato della sua essenza divina, pare chiedere di voler ritornare per congiungersi alla Madre Terra che lo ha generato, come il destino per tutti gli uomini. Van Der Weyden ci suggerisce la potenza della Gravità due secoli prima di Newton e la rivela nella sua concezione teatrale del Dolore. Il grande artista ci conduce sino a quel punto, a quell’attimo infinito che precede la conclusione del capitolo della Passione e con esso la chiusura del sipario di quella tragedia umana. Questo è il punto di massima sofferenza. Van Der Wayden è riuscito a cristallizzarlo. Da qui, le redini della narrazione sono affidate a ciascuno di noi, al proprio percorso di fede, di speranza o di semplice abbandono nella bellezza artistica.

Questo può fare l’arte dei giganti, su questo possono meditare gli uomini. L’eventuale conseguenza di questo capolavoro, ovvero il pensiero e la riflessione che si crea nell’animo umano, è un compito che solo ciascuno di noi, in se stesso, può coltivare e custodire.
(Roberto Cafarotti)

Rogier Van Der Weyden (c. 1400 – 1464)
Deposizione dalla Croce, 1435 ca. Olio su tavola 220 x 262 cm – Museo Nazionale del Prado, Madrid.

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