Il Moro di Bellocchio
di Federico Smidile
Foto sfuocata involontariamente ma sembra adatta.
Il film di Bellocchio è, appunto, un film. E per espressione artistica e ragioni di narrazione modifica, sposta, interpreta i fatti, li inventa e reinventa. Esaspera anche i caratteri ma lì si basa con forza sulle testimonianze. Moro, Cossiga, Andreotti sono raccontati in un modo che evoca quanto diceva mio padre, giornalista parlamentare e suiver della politica sul campo. I caratteri sono ben definiti e la somiglianza ricercata in modo maniacale. Meno persone le BR, meno dettagliate, come se la clandestinità ne sfumasse le fattezze. Poco convicenti per me Servillo e Buy che portano i loro tic in due personaggi dolorosi come Montini ed Eleonora Moro. È anche un racconto politico, anche qui con forzature. In Italia non vi fu guerra civile con le BR ma è chiaro che la violenza politica anni 70 non è ordine pubblico, non è compagni che sbagliano, ma nasce e prospera in un consenso, spesso tacito ma chiaro, in fabbriche, università e in molti intellettuali di sinistra.
Resta sullo sfondo il PCI di cui non si fa quasi menzione nonostante la sua presenza sia decisiva. L’incontro tra Moro e Berlinguer al Circo Massimo è pura fantasia (ma l’incontro tra collaboratori avvenne e fu decisivo). È un film, quindi, un’opera d’arte. E come tutte le vere opere d’arte non è innocuo. Oltre al valore estetico fa ricordare, discutere, pensare. E non é poco.

