Il Mediterraneo sapeva (e sa) essere anche amaro

di Armando Pepe

Sta rifiorendo una nuova stagione di studi storiografici interamente dedicati alla pirateria e, in particolare, al mondo dei corsari che solcavano e funestavano le rotte del Mediterraneo. È uscito da poco per i tipi della Società Editrice Dante Alighieri, inserito nella collana «Biblioteca della Nuova Rivista Storica», diretta da Eugenio Di Rienzo, l’agile volumetto «Mare Amaro. I corsari barbareschi sull’orizzonte italiano del Cinquecento», scritto da Gennaro Varriale, ricercatore presso l’Universitat de Valencia. In premessa è lo stesso Autore a dichiarare che «nel corso degli ultimi decenni, gli storici hanno messo in luce le relazioni più profonde tra barbareschi ed europei, che generavano vincoli al di là dello scontro armato, eppure il primo contatto non fu mai incruento» (p. 1).

 Ci sono delle ragioni che sottendono il concetto stesso di pirateria. Non di rado si incontrava i corsari sulle coste italiane, tirreniche ed adriatiche, che compivano razzie e si aveva paura di essere catturati su di una spiaggia d’estate. Succedeva di frequente, molto più di quanto si sia soliti pensare. A volte, come nel caso di Uccialì, studiato da Mirella Mafrici, il rapimento di un diseredato italiano produceva una metamorfosi in positivo, creando un ricchissimo uomo d’affari, sia pure loschi. Il destino, di massima, ieri più che oggi, era ed è sempre aleatorio.

A Napoli ed in Sicilia ci si industriava non per combattere i pirati, cosa impossibile se si paragonano le forze navali, all’epoca disponibili, alla ferocia e alla quantità dei pirati che assaltavano paesi e città di mare, adusi a raccapriccianti colpi di mano. Per tenere a bada i pirati si usarono tutti i metodi possibili e immaginabili, finanche lo spionaggio. Ai tempi di Pedro de Toledo, «l’amministrazione napoletana coordinava l’attività segreta lungo la frontiera, dove spie al soldo del viceré mandavano gli Avvisi del Levante, che erano elaborati in luoghi strategici del Mediterraneo. La corte vicereale organizzava missioni di agenti che, partiti dal regno, viaggiavano verso le città del Gran Turco. Nelle file dell’intelligence, una posizione preponderante fu assolta da tanti rifugiati d’origine greco-albanese che da decenni scappavano per l’avanzata ottomana nei Balcani. Capaci di muoversi con disinvoltura nelle terre del nemico, i levantini conoscevano le lingue, oltre ad avere contatti previ nella zona» (p. 20).

Quello dei pirati, ma anche dei soldati e marinai musulmani, era un mondo che agli europei faceva veramente paura. Le due parti del Mediterraneo si temevano a vicenda. Si pensi che pochi decenni prima, nel 1480, c’era stato il massacro di Otranto, in cui perirono centinaia di cristiani per mano dei turchi. Soltanto con la battaglia di Vienna, nel 1683, la pressione ottomana si attenuò, ma non si spense.

«Benché nell’Adriatico le coste del Regno di Napoli fossero le più soggette alle razzie, i corsari predarono anche zone più settentrionali. Di recente ricostruite, le incursioni di Ricamatore, un rinnegato di Fermo, furono una spina nel fianco per le autorità pontificie e veneziane. Il marchigiano fu poi ucciso dal proprio equipaggio, quando le galere di San Marco lo catturarono nel 1573. Cinque anni prima, secondo gli avvisi trasmessi da Cosimo Bartoli, il poliedrico ambasciatore dei Medici a Venezia, Ricamatore aveva pianificato un’operazione a Cesenatico, degna di una sceneggiatura cinematografica. Nel porto romagnolo, il corsaro con un manipolo di uomini, travestiti da mercanti, entrò in un’osteria, nella quale fece ostaggio il proprietario, la famiglia e alcuni clienti. Una volta scoperto, gli abitanti circondarono gli aggressori, che rilasciarono quei poveretti dopo una trattativa conclusa con uno scambio di prigionieri» (p. 5).

Di simili avvenimenti era costellata quell’epoca. Dagli archivi se ne potrebbero trarre fuori a decine. Si può comodamente pensare al bel libro di Cesare Santus dal titolo «Il turco a Livorno. Incontri con l’Islam nella Toscana del Seicento», edito nel 2019 da Officina Libraria. È un campo di ricerche oltremodo avvincente, che spazia dalla violenza ai rimedi adottati per prevenirla, dallo scontro in mare aperto al ruolo dei rinnegati, come il calabrese Uccialì e il fermano Ricamatore.

 Del resto per una nazione che ha i ¾ del territorio bagnati dalle acque, il mare oltre che salato si poteva rivelare anche amaro. Gennaro Varriale fa un uso consapevole delle fonti, rintracciate ad ampio raggio, in vari archivi di Stato, italiani, come Firenze, Genova, Napoli, Venezia ma anche spagnoli, come Simancas, Valencia, Madrid, inglesi, come la British Library a Londra. Si cita anche l’Archivio Storico Diocesano di Napoli, dove ci sarebbe molto da scavare ancora. Mi si permetta, infine, di ricordare anche il libro «Contrabbandieri e corsari napoletani nella rivoluzione di Corsica (1757-1768)» di Emiliano Beri, uscito per D’Amico editore nel 2020. Questo è un tema di ricerca davvero appassionante.

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