Il figlio terrorista
di Pedro Galmozzi
Il libro è suddiviso in due parti.
La prima parte è un saggio di alto giornalismo investigativo che in maniera puntuale e documentata smonta qualsiasi dietrologia scandalistica sulle presunte protezioni riservate al “figlio di”.
La seconda parte, la biografia umana e politica di Marco, è persino crudele e si legge con fatica: una sorta di discesa passo passo verso gli inferi in cui il disorientamento personale si salda sulla collettiva progressiva perdita del centro di gravità, fino alla desolidarizzazione, delazione e pentimenti che nemmeno la dissociazione come tentativo di avviare una soluzione collettiva riuscirà a fermare. Nello specifico la traiettoria umana e politica di Marco racconta il progressivo venire meno delle ragioni originarie con il passaggio dalla “prima linea dei conflitti sociali” alla “seconda organizzazione combattente”, processo segnato da alcune tappe incresciose come la morte dello studente Iurilli in un dissennato scontro a fuoco con la polizia e l’uccisione dell’incolpevole barista Civitate che indicano ormai la prassi armata come una sorta di autistica guerra per bande.
Della vicenda umana e politica di Marco va detto che l’essere figlio di ne ha provocato una enorme e malsana esposizione mediatica. Nell’estate del 1977 Marco non è un esponente di spicco di Prima Linea, è il vice comandante della Squadra di Borgo San Paolo ma quando una serie di arresti assesta un duro colpo all’organizzazione non esita a farsi latitante assumendosi la responsabilità di garantire la sopravvivenza dell’impronta originaria di Prima Linea proprio contro l’affacciarsi di una tendenza alla clandestinizzazione e al sacrificio del lavoro politico legale.
E questa sarà, pur con evidenti contraddizioni, la sua battaglia politica contro la deriva di prima Linea come “partito combattente”, che lo porterà verso la fine del 1979 ad abbandonare l’organizzazione ipotizzando una sorta di “ritirata strategica” capace di rimettere al centro il lavoro di massa.
Sul resto, anche se ritengo che di suo non abbia mai denunciato nessuno, non mi pronuncio. Il mio ricordo è quello di una persona profondamente generosa, cosa che trova conferma nelle circostanze della morte.
In generale, quarant’anni dopo, provo un sentimento di pietà per tutti, dissociati e irriducibili e persino se non per tutti perfino per molti pentiti, molti dei quali, va ricordato, come Marco stesso, avevano da tempo abbandonato criticamente la lotta armata e sono stati tirati in ballo proprio dai continuisti, dagli irriducibili fattisi ora essi stessi pentiti. Per altro molti pentiti sono stati, per quanto scelleratamente, mossi dalla motivazione di mettere fine all’insano macello in corso.
A distanza di tanti anni nessuno, né fra gli storici né fra i reduci ha analizzato a fondo il fenomeno del pentimento: un tabù politico ridotto a “pidocchi” e mero mercimonio. Che se così fosse verrebbe da interrogarsi sulla qualità del personale umano e politico della lotta armata dato che con approssimazione al ribasso, si può dire che il 90% di loro si è pentito o dissociato. Pesa come un macigno la menzogna storica degli ex brigatisti secondo i quali la dissociazione sarebbe responsabile della sconfitta della lotta armata mentre, con tutta evidenza, dissociazione e pentimento sono conseguenza della sconfitta della lotta armata.
Per comprendete queste tematiche il libro di Monica è molto utile. Anche se ci sarebbe ancora molto lavoro da fare.
