“Il fatto non costituisce reato” . Qualche considerazione sui recenti sviluppi del “caso Scirè”

di Nicola D’Elia

È dei giorni scorsi la notizia che la seconda sezione della Corte di appello di Catania, con sentenza emessa lo scorso 22 aprile, ha assolto i componenti della commissione giudicatrice del concorso per un posto di ricercatore a tempo determinato in Storia contemporanea bandito dall’ateneo catanese nel 2011, che erano stati condannati in primo grado dal Tribunale penale della stessa città etnea, il 16 aprile 2019, per il reato di abuso d’ufficio.
Come è noto, quella procedura concorsuale aveva visto la vittoria di una candidata laureata in Architettura, dunque con un profilo scientifico lontano dal settore disciplinare su cui era stata indetta la selezione, che poteva vantare una quantità di titoli e di pubblicazioni assai inferiore al secondo classificato nella graduatoria, Giambattista Scirè. Quest’ultimo avrebbe così deciso di impugnare gli atti della commissione davanti al TAR. Il ricorso venne accolto e la decisione della commissione dichiarata illegittima, ciò che ha dato luogo a ulteriori strascichi in sede penale.
Ovviamente, per poter formulare qualsiasi ragionevole considerazione di merito sulla sentenza di secondo grado, che assolve gli imputati dall’accusa di abuso d’ufficio perché “il fatto non costituisce reato”, bisognerà attendere di conoscere le motivazioni. Tuttavia, alcune circostanze appaiono chiare e, al di là della loro rilevanza penale, configurano palesemente una forma di favoritismo nei confronti della candidata risultata vincitrice.
Un interrogativo non può essere eluso: perché la commissione ha voluto attribuire il punteggio più alto a una studiosa sprovvista del titolo di dottore di ricerca, a fronte degli altri candidati che ne erano in possesso, e avente una produzione scientifica meno prolifica di quella di Scirè? La sentenza di primo grado menziona la vicinanza della vincitrice all’allora preside della Facoltà di Lettere, al quale viene attribuita la proposta di nomina di uno dei membri della commissione. Questa appare una risposta plausibile.
In sede processuale, i commissari si sono affannati a sostenere, avvalendosi della consulenza di studiosi che hanno ricoperto ruoli apicali nella Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO) e nell’Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR), la perfetta congruenza del profilo scientifico della candidata vincitrice con il settore disciplinare della Storia contemporanea. Non è il caso di entrare nel merito delle loro argomentazioni, che sono state peraltro contrastate da altri studiosi chiamati in causa. Val la pena piuttosto di chiedersi: avrebbero detto le stesse cose se la laureata in Architettura non fosse stata la vincitrice designata?
Nella manipolazione dei concorsi, come sa bene chiunque abbia consuetudine con il mondo accademico, si usano più registri, a seconda delle circostanze. Ma sempre con il medesimo obiettivo: favorire i candidati che sono stati preventivamente designati come vincitori. All’ambiente universitario si addicono perfettamente le parole di un brano di Luca Carboni del 1992: “C’è chi per poterti fregare ha imparato a studiare”.
In conclusione, l’aspetto penale della vicenda che è passata alle cronache come il ‘caso Scirè’ è importante, ma non decisivo. Ciascuno è in grado di capire come sono andate le cose. In generale, vale ciò che ha affermato un noto magistrato: “Se vedo il mio vicino uscire da casa mia con la mia argenteria in tasca, non aspetto la condanna della Cassazione per smettere di invitarlo a cena. E non lo invito più neanche se lo assolvono”.

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