Il discrimine della Riforma tridentina tra nuovi sviluppi storiografici e pesanti eredità

di Armando Pepe
Fare il punto della situazione nell’ampio filone di studi che riguarda la storiografia del concilio tridentino, di cui si passa in rassegna l’applicazione nelle diocesi italiane, interamente, da nord a sud, in aggiunta ad una rigorosa disamina bibliografica su ciò che si è finora, di valido, prodotto, è in sintesi l’obiettivo che si pone il recente volume «Riforma cattolica e concilio di Trento. Storia o mito storiografico?», scritto da Massimo Firpo per i tipi delle edizioni Viella. Lo esplicita, d’altronde, lo stesso Autore quando in premessa dice che «questo libro nasce dall’esigenza di chiarire alcuni fatti e concetti utili a comprendere la storia della Chiesa nella lunga età della Controriforma, sottraendola a indirizzi storiografici che mi paiono sempre più prigionieri di una forbice angusta» (p. 7), tra apologetica e visioni parziali, che non mettono nel modo giusto a fuoco un evento che fu di vasta portata e ampiamente diramato. Perciò, il volume indaga, soffermandovisi in dettaglio, della Riforma cattolica «gli sviluppi a partire dalle tesi che alla metà del secolo scorso trovarono il loro infaticabile promotore nel più illustre studioso del Concilio di Trento, il sacerdote slesiano Hubert Jedin, ancora legato a una granitica storia teologica e confessionale che a fine Ottocento aveva trovato il suo mentore nel dottissimo non meno che fazioso barone Ludwig von Pastor» (pp. 7-8), oggi assorbita nell’ambito dell’early modern Catholicism, corrente che nel gesuita statunitense John O’ Malley ha avuto uno dei più strenui propugnatori. Cospicua è pure la seconda parte, in cui si analizzano, per macroaree, le difficoltà ad incidere se non ad introdursi delle eredità immateriali postridentine. Non bisogna dimenticare, come osserva acutamente Firpo, che lo storico tedesco, nel suo libriccino «Riforma cattolica o controriforma», edito nell’immediato secondo dopoguerra, sosteneva tesi che «implicavano anche la continuità storica del magistero religioso e pastorale della Chiesa di Roma, indefettibilmente santa, sposa di Cristo, mater et magistra di tutte le genti, sottolineando sia la sua capacità di trovare al proprio interno le risorse con cui reagire alla drammatica crisi in cui era precipitata sia il segno profondo inciso su di essa dall’esigenza di contrapporsi alla Riforma d’oltralpe. […] Di qui l’insistere dello Jedin sull’esistenza di un vigoroso movimento riformatore “precedente e parallelo alla Riforma protestante”, sulla “continuità degli sforzi di rinnovamento della Chiesa dal tardo medioevo fino al secolo XVII inoltrato”, lamentando che anche gli storici che avevano fatto proprio il concetto di Riforma cattolica, di cui tracciava un panorama europeo, non avessero ben capito il “problema della continuità”» (p. 25). Guardando oltre le consuete e/o desuete formule parenetiche, arrivando all’osso, l’Autore dimostra, attraverso un’estesa documentazione, che lo spirito religioso moralizzatore e pudibondo, controriformistico, non intrise, purificandoli, gli sporchi panni di una Chiesa che aveva molte cose da sanare. C’era, insomma, una discrasia tra ciò che dai pulpiti si predicava con slancio e proverbiale facondia, magistralmente esaminata nelle ponderose opere di Marc Fumaroli, e la vita vissuta dai religiosi negli appena sorti seminari diocesani, nelle chiese, nei confessionali, ma anche di quella vissuta apertamente, alla luce del sole, durante le processioni e i funerali. Pratiche devozionali non conformi alle regole, comportamenti sacerdotali che esulavano dall’ortoprassi, questione che è approfondita a partire dal capitolo quarto, emblematicamente denominato «mito e realtà delle riforme» (p. 138), laddove con netto disincanto Firpo afferma che «l’illusione ottica e il conseguente travisamento della realtà causati dalle fonti normative hanno condizionato numerosi studi apparsi tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta, come quelli di Paolo Molinari ed Ernesto Pontieri sulle riforme del vescovo e poi cardinale teatino Paolo Burali a Piacenza e Napoli, ma anche in seguito, come per esempio quelli di Anna Maria Noto su Benevento e Raffaele Manduca su Agrigento. Così è accaduto nella ricerca di Daniele Montanari sulla Diocesi di Brescia, in cui a essere utilizzata è soprattutto la documentazione che attesta l’impegno episcopale per cambiare le cose, e solo in controluce si intravede lo stato desolante del clero, spesso ostile alle sue iniziative e desideroso di sottrarsi ai decreti tridentini» (p. 139). Ad isole felici, come la Milano borromaica, cui quasi venti anni fa Wietse De Boer dedicò un pregevole e particolareggiato testo, si contrapponevano in modo lampante diocesi come Parenzo, in Istria, dove «dalle costituzioni sinodali della seconda metà del Seicento risulta che nessuno dei parroci conosceva il latino e non era quindi in grado di pronunciare la professio fidei tridentinae, mentre dalle minuziose prescrizioni dei vescovi emergono con chiarezza vecchie e irrisolte magagne: l’assenteismo, il mancato rispetto delle norme sull’abbigliamento e sulla tonsura, l’abitudine di esibire “zazzere o rizzi (ricci) nodriti vanamente”, il concubinato, la partecipazione a pranzi e feste con laici, e in particolare “persone vitiose et scandalose”, il tenere in casa immagini oscene, la pratica del commercio, la vendita di vino “a menuto (minuto), in forma di bettola o hosteria”, il gioco d’azzardo, il pessimo stato di edifici sacri». (p. 149). Un elenco di circostanze inenarrabili, anzi paradossali per uomini che, in quanto consacrati, avrebbero dovuto essere, se non di morigerati e irreprensibili costumi, almeno accorti; invece, era tutt’altro che si manifestava apertamente, come avveniva a Fossano, cittadina piemontese, che «fu teatro delle gesta di Carlo Operti, rampollo di una potente famiglia nobiliare, laureatosi a Roma in diritto canonico nel 1612 e fattosi prete, un vero e proprio delinquente, un uomo violento, convinto che tutto gli fosse permesso in virtù del suo rango sociale, come il divertirsi a colpire con le frecce della sua balestra la gente che passava per strada, picchiare le donne, rubare e, se incalzato da qualche guardia, rispondergli con arroganza: “Io son Carlo Operto, che volete?”. Nel 1620 penetra con forza nella residenza del vescovo Tommaso Biolatto, ne asporta alcune suppellettili, fa arrestare una serva e giunge al punto di schiaffeggiarlo pubblicamente in chiesa» (p. 155). Per questi atteggiamenti irriguardosi, a dir poco arroganti, se non criminali, ci si immagina che Carlo Operti sia stato arrestato e, con una interminabile lista di reati come la sua, condannato ad una severa pena. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, il malvagio prete fossanese fu «insignito dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, del quale diventerà cavaliere di gran croce. Nel 1623 è designato parroco di San Giovanni Battista e di lì a poco vicario della diocesi fino al 1631, quando ottiene il primo di numerosi incarichi di governo al servizio della corte sabauda, fino a ricevere nel 1641 il titolo di Marchese di Roccavione, senza mai perdere il suo beneficio ecclesiastico, cui altri se ne aggiungono nel corso del tempo. Nominato governatore ducale di Mondovì nel 1645, qui vive more uxorio con una donna detta la “Druida”, nota per i suoi intrugli magici e stregoneschi» (p. 155). Soltanto dal 1649 la giustizia umana parve accorgersi delle prave gesta di Operti, morto nel 1655 a causa di un provvidenziale fulmine. Sregolatezze comuni, vite dissolute, presenti ovunque dal nord al sud, dove imperversavano i preti selvaggi, che agivano spesso quali capi di comitive di banditi, a danno della povera gente, vessata, gabbata e sottomessa. Nella nutrita serie documentale della “Delegazione della real giurisdizione”, presso l’Archivio di Stato di Napoli, s’incontra di sovente la figura del prete “scoppettiere”, cioè armato si schioppo, che se ne andava a giro commettendo soprusi di ogni fatta. Una religiosità malata che, come sottolinea giustamente Firpo, è stata analiticamente posta sotto vaglio critico da Giovanni Romeo in numerosi lavori di pregevole spessore. D’altronde, già a suo tempo Gabriele De Rosa aveva individuato le deficienze della fede e devozione meridionali nell’esistenza e capillare diffusione della chiesa ricettizia o porzionaria, ovvero formata da un collegio di chierici con lo scopo della cura delle anime e dell’esercizio collettivo del culto, la quale aveva un patrimonio in comune, le cui rendite spettavano in parte proporzionata ai partecipanti. Preti che badavano al concreto, all’epoca in cui divenire sacerdote era un modo per sistemarsi e sfangarla. Massimo Firpo usa come fonte, a tal proposito, anche il saggio (oggi si direbbe narrativa non fiction) di Carlo Levi, “Cristo si è fermato ad Eboli”, laddove lo scrittore torinese rievocava i due arcipreti che aveva avuto la ventura d’incontrare, distaccati dalla sfera sacra, per usare un eufemismo. Problemi ancora attuali, aggravati dai numerosi abusi dovuti alla pedofilia, cui la Chiesa, sotto il magistero di Papa Francesco sta coraggiosamente opponendo un fermo argine.