Il cinema di Carmelo Bene

di Valentino Faticanti 

Il cinema di Carmelo Bene sembra fin dall’inizio essere permeato dalla possibilità (e, forse, dall’inevitabilità) della sua stessa sparizione, che accetta l’eventualità dell’eliminazione di sé, del proprio corpo, ovvero della cancellazione di immagini che, alla fine, appaiono quasi senza significato. Tutto il percorso filmico di Bene, allora, appare come una ricerca instancabile e insanabile verso l’al di là del cinema, verso la negazione del cinema, attraverso la consapevolezza che il cinema può (o deve) concludersi: ecco che allora il primissimo momento filmico di Carmelo Bene, Hermitage (1967), con la sua documentazione esaltata (e a tratti insensata) del corpo di Carmelo Bene e del suo doppio, la voce, sembra già contenere un dopo, ovvero la fine del suo cinema, il suo sottrarsi all’immagine. Questa sorta di auto-immolazione dell’artista (attore e regista) Carmelo Bene è rappresentata da Salomè (1972), dove il dissolversi dell’immagine del corpo di Erode (e il permanere della sola phoné) si fa emblema del disfacimento di tutta la pellicola, inquietante anticipo della sospensione di tutto il suo cinema. Ma il vero e proprio film ultimo di Carmelo Bene non è Salomè (1972), bensì Un Amleto di meno (1973), e questo fatto non appare casuale: non solo perché l’Amleto è la figura costante nelle sue opere e nella sua vita (Bene stesso si definisce «Amleto del Novecento»), ma anche perché l’Amleto, nel suo rappresentare la cessazione del suo cinema, in fondo lo riassume e lo sintetizza. Il fantasma di Carmelo Bene ha sempre attraversato la sua opera attanagliato dal dilemma dell’essere o non essere: l’esser costretti, per coazione, ad essere senza esserci, questa sembra essere la storia di Amleto, ed è per questo che appare straordinario il confronto continuo, ironico (attraverso Laforgue) di Carmelo Bene con Amleto, o meglio, con le sue “versioni” dell’Amleto rivisto e “rimontato” (un vero e proprio mixaggio è l’Hamlet Suite, al tempo stesso autobiografia e revisione di quel testo assolutamente impervio e incompiuto che è l’Amleto). L’Amleto, certo, è stato per tutti i grandi autori, registi e attori di teatro una grande ossessione, il momento dell’auto-ossessione biografica: in qualche modo non sfugge a questo neanche Carmelo Bene, ma addirittura Bene ne fa un’insegna, cioè in un certo senso è forse il più onesto dei grandi uomini di teatro, poiché si nega come attore su una scena, su un set, per farsi esso stesso set, ovvero autore e attore, forse né attore né autore, probabilmente “genio” («il genio fa quello che può e non quello che vuole», ha detto e scritto più volte lo stesso Bene). Il dramma di Amleto non è lo sviluppo drammatico della storia shakespeariana che possiamo raccontare in poche righe (o in molte pagine), ma è un dramma sull’istante, è un solo istante allucinatorio dove tutta la storia, tutta la narrazione diventa spettro, il quale è un personaggio chiave, nella sua apparizione/sparizione, nella vicenda di Amleto. La situazione di Amleto è una situazione automaticamente spettrale, l’ “essere o non essere” è il sapere di non essere (mentre si è), ovvero il sapersi spettro (il sapere dello spettro). Questa, in fondo, è la tensione massima espressa da Carmelo Bene (in teatro come al cinema), con in più (o in meno) il grandissimo pregio dell’ironia (di nuovo, Laforgue), l’Amleto che non ha bisogno di esser preso sul serio come icona teatrale, come racconto di racconti, ma che è il racconto assoluto, ovvero il racconto della situazione/dibattito che c’è all’interno di un solo secondo. Tutto il teatro (e tutto il cinema) di Carmelo Bene si è sempre mosso in una situazione di circolarità dell’istante, di bilocazione del soggetto: ancora l’ “essere o non essere” come il bianco e il nero del fotogramma, il dentro e il fuori, l’immagine e la non-immagine, il visibile e l’invisibile; questo è l’ “essere o non essere” di Amleto, come lo è pure di Carmelo Bene, che è sicuramente il fantasma più radicale, più corposo che sia mai apparso (o, dovremmo dire, scomparso) nella storia del teatro e del cinema italiano. Ma, ancora, si può affermare l’esistenza di una Storia, per Carmelo Bene? Oppure è la parola ad essere di nuovo storia, ogni istante, ogni singola parola è subito il suo opposto, il suo dividersi in fonemi ironici o in momenti di seriosità assoluta, come la sua ripetizione orale dei testi, immediatamente traditi, straniati, fatti esplodere, esplosivi essi stessi (ancora Amleto…). Tutta la Storia (e forse anche la storia del cinema di Carmelo Bene) è troppo corta, tanto che ci sembra quasi poter ricominciare dalla (sua) fine: è questa la sospensione netta che solo il grande cinema americano ha dato, dove le cose avvengono tutte con una grande esattezza di fisicità, e nello stesso tempo imperscrutabili, assenti, trasparenti come traiettorie fatali di fantasmi, e nello stesso tempo con l’illusione del teatro delle libertà, delle spinte, delle evoluzioni. Tutto il cinema hollywoodiano è un istante, l’apertura del tempo in un solo attimo e in un solo film: il cinema stesso ci mostra come un solo fotogramma sia troppo se pretende di significare il movimento, se si illude, magari raddoppiandosi in due fotogrammi, di essere in movimento. Il cinema di Carmelo Bene, una volta di più, ci mostra che l’unico movimento che possiamo concepire è quello di riconoscerci fermi o, forse, mossi da altro.

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