Grande Albergo delle Rose (Rodi. L’Italia. Giocatori e spie: 1912-1949)

di Riccardo Mandelli

Presentazione del libro: Riccardo Mandelli, Grande Albergo delle Rose [Rodi. L’Italia. Giocatori e spie: 1912-1949], Atene, ETPbooks, 2021, pp. 127.

Verso la fine del 1922, quando la disfatta greca in Anatolia appariva irrimediabile e nessuno – nemmeno i britannici – sembravano intenzionati a fare qualcosa per contrastare la vittoria dei nazionalisti turchi guidati da Mustafa Kemal, il governo italiano capì che non avrebbe più dovuto trasferire il Dodecaneso ad Atene, come stabilito dai trattati che aveva firmato. L’arcipelago occupato dieci anni prima nel corso della guerra di Libia avrebbe continuato a essere italiano fino a eventi contrari, che per il momento non si scorgevano all’orizzonte. Chiamarlo “colonia” come un territorio africano non sembrava corretto nei confronti della civiltà greco-romana. Si scelse una formula più sfumata come “possedimento”, che prese piede anche se le colonie, alla fine, sono pure dei possedimenti.

Nel 1912 il Dodecaneso era stato occupato per il valore strategico. Ora che l’assetto mondiale era molto cambiato conservava sempre la stessa importanza, anzi maggiore, perché l’Italia, dopo l’assegnazione alla Gran Bretagna del mandato sulla Palestina e alla Francia di quello sulla Siria, aveva solo quel gruppo di isole sparse vicino alla costa anatolica per riequilibrare gli assetti geopolitici del Mediterraneo orientale. Un’area dove i cambiamenti potevano essere rapidi, a cominciare dal destino della nuova Turchia, che secondo molti non avrebbe avuto una lunga vita per i molti problemi che la agitavano, interni e internazionali, momentaneamente coperti dal prestigio del generale che aveva sconfitto greci e armeni. Se per l’Italia si fosse presentata l’opportunità di conquiste territoriali in Anatolia, Il Dodecaneso sarebbe stato una testa di ponte perfetta. E lo stesso in caso di conflitti più ampi, che avrebbero potuto ribaltare gli equilibri regionali: tutti i punti strategici chiave – Dardanelli, Cipro, Alessandria d’Egitto, Cirenaica, Pireo – si trovavano infatti compresi in un cerchio del raggio di poco più di 500 chilometri, con al centro Rodi.

Ma, al di là delle considerazioni politico-militari, le isole egee erano poco produttive, semideserte. In attesa che servissero da trampolino di lancio imperiale si doveva fare in modo che non gravassero eccessivamente sul bilancio dello Stato italiano. Il settore più promettente appariva quello turistico, soprattutto ora che i suoi ritmi stagionali si stavano orientando verso l’estate. Per creare un flusso era necessario attirare la ricca borghesia delle metropoli levantine, dove esisteva un pubblico che amava i viaggi, i soggiorni nelle località alla moda. Occorreva intercettare soprattutto la comunità ebraiche, greche, inglesi e francesi stanziate in Medio Oriente. Rodi, in particolare, con il suo passato glorioso, le vestigia classiche e i monumenti cavallereschi, aveva tutte le potenzialità per trasformarsi in un resort di successo, una esposizione permanente della “Nuova Italia” nelle terre su cui il governo fascista sognava di piantare prima o poi la sua bandiera.

A partire dal 1924 ha così inizio una operazione studiata a tavolino per creare a Rodi una stazione turistica modello, capace di esercitare una attrazione internazionale, inserendosi nel circuito delle località che attirano la “bella gente” proveniente dai quattro angoli della terra: aristocratici, milionari, politici, personalità dello spettacolo, della moda, dell’arte, fino a diventare «la meta di quelle carovane che scorazzano il mondo in cerca del bello, seminando l’oro sul loro passaggio». Rodi come Montecarlo, o, per restare sul territorio nazionale, come Sanremo, l’exemplum italiano di tutto il settore.

Il compito di coordinare l’impresa fu affidato al governatore delle Isole Italiane dell’Egeo, Mario Lago. Classe 1878, Lago era un diplomatico di carriera formatosi nell’età liberale; un piemontese di famiglia giolittiana, passato al nazionalismo prima del conflitto mondiale e amico dei leader del movimento, come Enrico Corradini e Luigi Federzoni. Il governatore iniziò un radicale rinnovamento delle strutture produttive, amministrative e architettoniche dell’arcipelago, e di Rodi in particolare, cercando di ammansire con le lusinghe l’irredentismo ellenico. Nel corso del suo mandato più che decennale ottenne successi e insuccessi; un “colonialismo dal volto umano”, che comunque fu sempre colonialismo, rivolto a promuovere interessi di parte. La sua, per dirla in altre parole, fu una grande impresa di soft power. In questo contesto, la città di Rodi cambiò faccia grazie al contributo di architetti chiamati dall’Italia come Florestano Di Fausto, o di professionisti di talento assunti nell’amministrazione locale. Una città avveniristica, dalle forme eclettiche, sorse accanto a quella fortificata; pietre e mattoni diedero concretezza alla “idea mediterranea” della cultura nazionalista, idea che prendeva origine dall’impero di Roma, dalla sua fusione con la cultura greca, dal dominio di Genova e Venezia, dal secolare confronto tra cristiani e musulmani, dal richiamo sensuale dell’Oriente. «La parte medioevale racchiude in un racconto favoloso il poema cavalleresco, il romanzo gotico e le mille e una notte. Uscendo dalle mura, la città nuova sembra fondere insieme le immagini di Rabat, Tunisi, Venezia, Roma, Bisanzio e Jaipur. […] L’esotismo magico si spinge dall’art déco fino all’architettura razionalista più disadorna, prolungando la traccia fiabesca che, con le sue fate e i suoi mostri, ti insegue dalle strade dei cavalieri».

Il perno di tutto il progetto, la struttura d’eccellenza, che doveva preparare il terreno per quelle minori, con effetto a cascata, sarebbe stato però il Grande Albergo delle Rose, previsto sulla spiaggia settentrionale, in faccia alla costa anatolica. Con il supporto personale di Mussolini, Lago prese contatti con il “padrone “della Banca Commerciale Italiana, Giuseppe Toeplitz, l’uomo che più di ogni altro incarnava in Italia il grande capitalismo internazionale, quel mondo sfuggente, mobile ma al tempo stesso determinante per la realtà economica nazionale, con cui il fascismo aveva una complicata partita di dare e avere. L’hotel venne costruito con il contributo finanziario del governo e delle società collegate alla banca, come la Compagnia Italiana Grandi Alberghi, la celebre Ciga. Inaugurato in grande stile nel 1927, quasi subito gli si affiancò una casa da gioco, secondo un modello di sfruttamento turistico ampiamente collaudato in tutta Europa da molti decenni: Giocatori e spie, come recita il sottotitolo del volume, correlato di un ampio apparato iconografico, per gran parte inedito. Intorno ai tavoli verdi si affolla infatti un’umanità viziosa, corrotta e ricattabile, terreno ideale per carpire segreti o fornire false informazioni. I servizi segreti hanno bisogno di fondi riservati, cioè di denaro, molto, non tracciabile; una condizione che i casinò, per la loro natura, soddisfano facilmente. Sanremo e Campione d’Italia, come Montecarlo, Biarritz e San Sebastian ne sono esempi straordinari, che nascondono nei loro meandri le vicende più oscure della storia europea novecentesca. La vita del Grande Albergo delle Rose si intreccia quindi con l’operatività dell’intelligence italiana di Rodi e la “proiezione di potenza” che doveva favorire. A capo della società che dirigeva l’hotel fu scelto non a caso un ufficiale della marina militare, che era al tempo stesso a capo di un consorzio privato di produttori di armamenti legati alla Banca Commerciale, in un intreccio vertiginoso tra industria privata e commesse pubbliche nel settore bellico. Le molte carte inedite d’archivio analizzate dal volume documentano in modo dettagliato, tra l’altro, un grosso traffico di forniture belliche navali italiane in favore di Grecia e Turchia. Il paese di Atatürk finì per costruirsi la sua marina militare con l’auto di quello che si riteneva il suo principale avversario.

Questo per la “grande storia” che gira intorno alle vicende dell’hotel di Rodi. Ma c’è anche quella minore, personaggi eccentrici, avventurieri e avventuriere che ne hanno abitato le stanze, lasciandovi le loro ombre, le loro impronte sui cuscini, i loro profumi. Come la principessa irachena, figlia di re Faysal, che nel 1936 si innamorò perdutamente e finì per sposare uno dei portieri dell’albergo, un ragazzo greco figlio di pescatori di spugne…

Il 1936 fu anche l’anno in cui Lago dovette lasciare il governatorato. Al suo posto arrivò il quadrumviro Cesare Maria De Vecchi. Da quel momento iniziò un’altra fase, dominata dalla guerra che si avvicinava a grandi passi, e culminata con la deportazione e lo sterminio di tutta la comunità ebraica sefardita che da secoli viveva a Rodi. Al termine del conflitto il Dodecaneso passò alla Grecia, ma nell’hotel si scrisse ancora una pagina importante per la storia del neonato Stato di Israele.

Chi decide di andare a Rodi per turismo trova il Grande Albergo delle Rose ancora nello stesso posto, con le linee più austere volute dal restyling imposto da De Vecchi e la scritta “Casino Rhodos” che campeggia come richiamo sul tetto dell’edificio.

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