Gramsci e l’apologia del capitalismo USA

di Salvatore Sechi
Non è stato finora precisato quale fu concretamente la visione che dopo la prima guerra mondiale Piero Sraffa ebbe dell’economia. Mi pare si possa dire che fu poco o nulla vicina a quella di Karl Kautsky. Insieme ad Antonio Gramsci (ma prima di lui e su una base non giornalistica ma teorica) l’esponente della socialdemocrazia tedesca per un certo periodo ravvisò nella globalizzazione e nell’integrazione del capitalismo un elemento di sviluppo delle forze produttive.
A questa sinistra marxista si deve l’apologia del modo di produzione capitalistico e l’idea che l’imperialismo potesse essere una fase in cui produzione, occupazione e incremento della ricchezza potessero continuare. Solo così il proletariato industriale poteva ergersi a competitore e sostituirsi alla borghesia.
Anche se non disponiamo di elementi documentali precisi, l’impressione è che Sraffa subisse, invece, l’influenza di Lenin di cui L’Ordine Nuovo (al quale il giovane economista era sensibilmente legato) si fece il maggiore interprete, e anzi portavoce, nella sinistra italiana dell’epoca.
Nelle lotte operaie dell’inizio degli anni Venti sulle due rive del l’Atlantico aveva visto all’opera una borghesia non “ardentemente capitalista”, ma in preda ad un “ideale di mediocrità conservatrice“.
Ho usato il lessico delle Riflessioni sulla violenza di Sorel per dire che gli esponenti del capitalismo non furono all’altezza della sua funzione storica. Con la conseguenza che non avevano dato il meglio di sé, cioè la realizzazione di obiettivi e un assetto sociale più avanzati, ma, inducendo così il proletariato a non essere “pieno di spirito bellicoso e fiducioso nelle forze rivoluzionarie”.
Quel che Sraffa aveva avuto sotto gli occhi non era lo spettacolo di due classi sociali che si fossero levate “l’un contro l’altro, con tutto il rigore di cui sono capaci le forze di cui dispongono”.
Gramsci prima di finire irretito nella venerazione per Lenin aveva rilevato che “Solo in quanto gli operai hanno un fine divergente ed antagonistico col fine dei capitalisti, questi miglioreranno la tecnica, introdurranno innovazioni utili” e saranno sospinti a “esplorare i mercati, e creare tipi di merce che i mercati preferiscono”.
Fu, infatti, il capo dei bolscevichi a formulare l’idea di una precipita zione irreversibile del capitalismo verso l’imperialismo con esito finale una débâcle catastrofica e la spinta irreversibile alla guerra. Derivò di qui l’opzione per la coscienza antagonistica di classe rispetto ai rapporti di produzione (cioè per una lettura di tipo terzi-inter nazionalista del capitalismo rispetto a quella dei socialisti riformisti).
Ancora nella primavera del 1918 Gramsci perorava l’importanza dell’opera di perfezionamento della borghesia, la spinta al progresso dell’ordinamento economico-sociale del capitalismo e con esso al l’incremento della produzione e della ricchezza. Non sarà isolato se a Milano un sindacalista rivoluzionario suo conterraneo come Attilio Deffenu si sentirà indotto ad applicare al sottosviluppo questa lettura(riproposta da Gramsci) dell’affresco storico del capitalismo delineato da Marx nel primo volume del Capitale, scrivendo che anche “la Sardegna comincerà a vivere capitalisticamente”.
Questa cultura aveva per protagonisti Luigi Einaudi, De Viti De Marco, Attilio Cabiati, Edoardo Giretti ecc., cioè la grande cultura liberista. Da loro muovono i giudizi inizialmente favorevoli al cd americanismo( Wilson e il wilsonismo).
Il presidente degli Stati Uniti da Gramsci era considerato il rappresentante degli interessi concreti del capitalismo americano. Rispetto a quello italiano ne viene messa in evidenza la vitalità nell’alimentare lo sviluppo e l ’occupazione.
Per quanto concerne l’organizzazione del lavoro il metodo più efficace viene individuato nel taylorismo (operazioni di calcolo e disciplina dei tempi di lavoro, loro scomposizione ecc.). E nella Fiat, in cui i metodi di Ford e Taylor venivano applicati sul piano della produzione, delle relazioni industriali e di quelle internazionali, fu individuato nella Fiat. Qui era venuta maturando quella forma di americanismo che Giovanni Agnelli, wilsoniano solerte, ritenne fosse adatto, se non proprio gradito, alle sue maestranze..
Ma Washington diventava anche l’epicentro dell’imperialismo, sostituendosi alla Gran Bretagna sul piano interno e internazionale. L’’industria torinese occupava un posto significativo, di punta, in quanto in Italia, e ai primi posti in Europa, era alla guida del processo di unificazione capitalistica in corso su scala mondiale.
Nel giro di qualche anno, precisamente nel 1919, dall’entusiasmo per il presidente americano si passa allo scetticismo. Dopo l’associazione degli Stati Uniti alla campagna di aggressione contro l’Urss, di con certo con a Francia di Clemenceau, il disincanto prende la via della dissacrazione fino alla condanna senza appello.
Dall’esecrazione di Wilson all’apoteosi di Lenin fino a farne una leggenda e un modello il passo è tanto breve quanto impressionante. Di qui scaturisce l’attacco demolitore portato (non solo da Gramsci, ma anche da Sraffa) al sindacalismo americano, la denuncia del suo corporativismo, con la riprovazione di un esponente del riformismo sindacale, Samuel Gompers. Da “vecchio Zar” (come amava chiamarlo Gramsci) al ministro degli interni tedesco Noske (come lo etichettò Zinov’ev, presidente dell’Internazionale comunista).