Giuseppe Donizetti. Il pascià bergamasco

di Fabio Libero Grassi

Emre Aracı, Giuseppe Donizetti. Il Pascià bergamasco, a cura di Nicolò Verderame, prefazione di Giuliano Regonesi, introduzione di Paolo Fabbri, Roma, Sandro Teti editore, pp. 370, euro 24 (ed. or. Donizetti Paşa. Osmanlı sarayının İtalyan maestrosu, İstanbul, Yapı Kredi Yayınları, 2006).


“Beh, Giuseppe Donizetti lo conosco, ovviamente, ma Gaetano Donizetti chi è?” Non è una battuta, non è una barzelletta, è ciò che qualche anno fa sinceramente disse un turco di buona cultura, come riporta Paolo Fabbri nella sua introduzione. Ebbene sì. Questo fratello maggiore occupa al massimo una riga in qualche voluminosa “normale” storia della musica (occidentale) e forse qualche riga in più nelle opere dedicate al grande Gaetano, ma occupa invece un posto d’onore negli studi sulla musica turca e più in generale sulla storia culturale dell’Impero Ottomano. Fuori della Turchia è stato noto da sempre agli specialisti, perché la sua opera costituisce uno dei caposaldi dello sforzo di avvicinamento all’Occidente da parte dei sultani e delle élites musulmane ottomane nel corso dell’Ottocento. Ma ora, con questo libro, la conoscenza di questa appassionante e significativa vicenda può estendersi a una più vasta cerchia di lettori.
Tanto più può estendersi giacché questo di cui vi parlo è davvero un gran bel libro, frutto di tenaci e ubique ricerche. L’autore, Emre Aracı, è un affermato musicista, musicologo, direttore d’orchestra, senza dubbio il massimo esperto vivente del primo secolo di musica in stile occidentale in Turchia, primo secolo che coincide pressoché perfettamente con l’ultimo secolo dell’Impero Ottomano. A buon diritto il competentissimo Nicola Verderame è registrato non solo come traduttore ma anche come curatore di questa edizione italiana. Puntuali e gradevoli i contributi di prefatore e introduttore. Accuratissima la veste grafica, rarissimi i refusi, eccezionale per ampiezza e rarità l’apparato iconografico, interessanti le appendici. Altro punto a vantaggio della fruibilità di questo volume è che sono limitate al giusto necessario le annotazioni strettamente tecniche di àmbito musicale. Volendo cercare un difetto con il lanternino, sarebbero stati utili per il lettore non specialista una breve cronologia della storia ottomana dei decenni in oggetto e uno specchietto sulla pronuncia di alcune lettere dell’alfabeto turco odierno in caratteri latini (la “ı” di Aracı, per esempio, segnala una “i” molto chiusa, molto prossima a una “e”, la “c” va letta come “g” di “gelato”…). Suggerisco l’una e l’altro per le auspicabili tante prossime edizioni.
Giuseppe Donizetti (1788-1856) si votò presto alla musica e, si direbbe, alle esperienze inconsuete: seguì Napoleone sia all’Elba sia nei “cento giorni”, riuscì poi in piena restaurazione a diventare maestro di banda nell’esercito sabaudo e nel 1828 accettò la proposta di trasferirsi a Costantinopoli per riorganizzare la banda militare ottomana: nel corso di due decenni terribili, in cui più volte il vecchio impero fu sull’orlo del collasso, il grande sultano riformatore Mahmud II (regno 1808-1839) aveva infatti avviato un serio programma di modernizzazione; in particolare, nel 1826, aveva accuratamente sterminato i giannizzeri, da tempo trasformatisi in una mafia inefficiente e corrotta, e dissolto la loro tradizionale sezione bandistica.
Giuseppe fece il suo dovere e molto di più: per quasi tre decenni fu il principale araldo della musica di stile occidentale in Turchia e fu il referente primo di tutti i musicisti più o meno illustri che vennero a Costantinopoli. Tra i loro nomi spicca quello di Liszt, che lo onorò di una parafrasi della marcia da lui composta per il successore di Mahmud II, Abdülmecid (Abdülmecid I se si vuole considerare Abdülmecid II il raffinato intellettuale e artista che fu solo califfo tra il 1922 e il 1924).
Come musicista “Donizet bey” non fu più che “onesto artigiano” (Fabbri): tra marcette e danzette anche lui per una volta si attentò a scrivere il suo bravo quartetto per archi, ma Aracı pudicamente non si esprime sul suo valore. Tuttavia, va ribadito, assolse a una funzione culturale di primo piano. Non solo portò la musica classica occidentale nel cuore della società ottomana dell’epoca, ma trascrisse e armonizzò canzoni e canti popolari della tradizione turca. Fin dal XIV secolo quasi tutti i sultani ottomani erano stati poeti e musicisti; ma da Mahmud II in poi smisero di essere adepti di una ormai estenuata tradizione di origine arabo-persiana, che nel campo musicale prevedeva fino agli ottavi di tono, si impegnarono da volenterosi allievi a comporre i propri pezzi da salotto e iniziarono ad apprezzare anche le forme musicali più impegnative della trazione occidentale, via via che diventava possibile ascoltarle ed eseguirle.
Di tutto ciò il nostro Giuseppe fu ben ricompensato: se non è proprio così sicuro – ed è una delle sorprese del libro – che morì insignito del titolo di pascià, come vuole la tradizione ma come anche importanti documenti attestano, non c’è il minimo dubbio che fu apprezzatissimo dai suoi imperatori e fu colmato di onori e ricchezze. Visto che ci siamo, il carteggio con i familiari e tra i familiari, compreso il fratello Gaetano, verte prevalentemente su concrete questioni economiche, a ennesima dimostrazione che anche gli artisti e gli uomini di cultura di solito non hanno voglia di campare d’aria per soddisfare le romanticherie dei posteri. Del resto i fratelli Donizetti venivano da una famiglia molto povera. Qualche fonte accusa Giuseppe e suo figlio Andrea di non aver fatto il meglio possibile per aiutare Gaetano nei suoi ultimi anni, segnati dal noto penoso tracollo psicofisico. Il libro presenta serenamente la questione e senza particolari ansie apologetiche fa capire che queste accuse sono probabilmente ingiuste o perlomeno esagerate. Alcune altre fonti, del resto, tributano a Giuseppe Donizetti una stima non solo professionale ma anche umana. Dovette di certo essere uomo di molto tatto. Ma la pura abilità è una maschera che non regge all’infinito. Scommetterei sul fatto che quest’uomo ebbe davvero pochi pregiudizi e molto rispetto per la società turco-musulmana con cui entrò in contatto. Così come, un secolo dopo, un altro bergamasco (sia pure in senso lato), ossia il delegato apostolico Angelo Roncalli.

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