Georges de La Tour
di Roberto Cafarotti
Un capolavoro può essere molto semplice, anche privo di grandi elaborazioni concettuali. Anzi, più è alta la sua qualità e spesso meno necessita di strutture complesse e articolate.
Cosa vediamo in questa tela di superba bellezza? Tre figure semplici: una madre che con grande tenerezza regge il suo bimbo, strettamente fasciato come era d’uso in quei tempi, mentre sta dormendo. Al suo fianco un’altra donna, verosimilmente la nonna. Sostiene una candela che non vediamo poiché coperta con l’altra mano alzata a coppa: sembra voler riflettere tutta la luce verso quella creatura e darle, in quella calda penombra, la maggiore visibilità possibile.
Nulla di più semplice in questo scena, eppure si percepisce una misteriosa sacralità. Gli spazi vuoti e scuri che circondano le figure mediano e ritmano la composizione facendo emergere con vigore i toni caldi in cui i volumi si manifestano.
Sono molto appassionato di quest’artista. Me ne innamorai subito attraverso un altro suo capolavoro, San Giuseppe Falegname, che consiglio a tutti di vedere.
Ciò che di La Tour mi attrae enormemente è la sua singolare capacità di rendere la luce naturale la protagonista principale delle immagini. Egli ci propone un’interpretazione originalissima delle scene che intende raffigurare. Se dovessi paragonarlo a un regista dei nostri tempi lo accosterei certamente a Kubrick.
È evidente che La Tour, artista lorenese di quel Seicento fra Cattolicesimo e Riforma, conosceva Caravaggio. Addirittura, alcune fonti lo indicano come presente in Italia quale allievo di Guido Reni. Sebbene poco si sappia di lui, fu riscoperto e studiato solo dalla metà del secolo scorso dopo quasi due secoli di oblio. La qualità eccelsa dalle sue opere emerge anche senza la stringente necessità di conoscere in profondità gli eventi della sua vita. Contrariamente alla delicatezza delle sue opere i pochi documenti che lo descrivono ci raccontano di un uomo gretto, attaccato al denaro e al potere. Ma tant’è che oggi noi lo ricordiamo per la sua arte, che come spesso accade, non riflette le miserie umane ma si eleva verso vette spesso ignote anche a chi le raggiunge.
Le sue opere più famose e significative sono dipinte nella quiete di una luce calda ed avvolgente. Una luce che si articola aprendosi nelle oscurità di notti profonde in cui le case erano completamente immerse.
Ma le notti descritte da quest’artista non sono minacciose, anzi, direi piuttosto positive, prive di tormenti o inquietudini.
Le notti di La Tour sono fecondate dalla luce calda delle candele: moderati fuochi domestici che modellano le scene nel torpore e nella meditazione. Malgrado La Tour sia un artista del Seicento, quindi del Barocco della Controriforma, egli rifugge dalla teatralità esibita con i gesti accentuati dei corpi. Nelle sue tele tutto è silenzio e misura, parlano solo le atmosfere raccolte.
Sono nato negli anni Sessanta, ovvero quando la luce elettrica era già diffusa in tutte le abitazioni, ma ricordo molto bene quelle atmosfere che vivevo quando visitavo i miei nonni e gli zii che abitavano nella campagna romagnola. Nelle sere autunnali, di fronte al camino, ricordo quei momenti di dialogo in un dialetto stretto, fatto di sussurri e di voci sommesse, dette come se il fuoco incutesse rispetto e misura. Come se la solennità di quel momento, di fronte al quale si raccontavano le proprie esperienze, guardando il calore del focolare, imponesse un senso di verità alle parole dette.
Poi, ogni tanto, si attizzavano i ciocchi per far sprigionare le scintille quali silenti testimoni di vita nel fuoco.
Le mani callose di zio Carlino, indurite nella terra, non temevano di raccogliere nude qualche tocco di brace per posarlo con calma dentro la camera d’osso della pipa e fumare due “prese” di tabacco. Ecco, quello era un momento di raccoglimento antico di cui serbo un lontano ma persistente ricordo, ed è in quella memoria che rivedo le atmosfere di La Tour: quella luce che dal camino sprigionava era la luce che rivedo oggi nei quadri di La Tour. Calda, morbida, avvolgente tratteneva il mistero della vita, emanava quel senso di mistero a cui gli uomini si abbandonano lasciandosi ipnotizzare dalla danza del fuoco, come quello sinuoso di una candela.
Nell’opera di La Tour c’è l’urgenza di rappresentare il sacro, e ben pochi più di lui ci sono riusciti attraverso l’immagine. Le dita della mano di quella probabile Sant’Anna, sono unite a coppa, tutto è misurato in un silenzio musicale, dove la fissità della scena evoca il senso di una spiritualità universale, non necessariamente religiosa. Nel neonato che rappresenta Dio incarnato potremmo riconoscere anche il mistero della vita che si manifesta nella sua universale grandezza.
Di fronte a questa tela credo sia difficile non abbandonarsi ad una meditazione sul mistero della vita, e questo è certamente uno degli aspetti più alti che un vero artista possa suscitare.
Georges de La Tour (1593-1652)
Il Neonato (o Natività), 1645/48? Olio su tela, 76 x 91 cm. Museo delle Belle Arti, Rennes.
