Galeazzo Sanvitale ritratto dal Parmigianino

di Roberto Cafarotti

Provate a guardare quest’opera per alcuni secondi, diciamo una decina, poi distogliete lo sguardo e cercate di ricordare cosa vi ha maggiormente colpito di quest’opera.
Per quanto mi riguarda certamente non posso scordare lo sguardo, potente penetrante, addirittura ipnotico. Forse qualcuno penserà che esagero ma se avrete l’opportunità di vederlo dal vivo a Napoli o di poterne osservare una copia ingrandita noterete che l’intensità dello sguardo aumenta con l’aumentare della prossimità al quadro stesso. Poi, l’altra cosa che mi colpisce sempre in maniera profonda è la qualità cromatica dell’opera, in particolare del cappello rosso, il quale mi riporta alla memoria il ritratto della “Fanciulla col cappello rosso” di Vermeer custodita alla National Gallery d Washington.
Ma andiamo con ordine e vediamo di chi ci parla questo capolavoro che Francesco Mazzola, da noi comunemente conosciuto come il Parmigianino, produsse ad appena ventun anni.
Ma chi ha ritratto Parmigianino? Intanto stiamo parlando di un principe. Bella forza direte voi, appare a tutti che non stiamo descrivendo un salumiere della bassa Padana. Eppure, per tre secoli, quest’opera fu considerata il ritratto di Cristoforo Colombo. Ora, mi domando, come sia stato possibile confondere questa figura così giovane e intensa con un vecchio lupo di mare che all’epoca del ritratto avrebbe dovuto avere almeno una settantina di anni e soprattutto, esser morto da quasi venti. Anche come ritratto postumo, mi chiedo perché il Parmigianino avrebbe dovuto ritrarre Colombo con un cimiero e una mazza ferrata. L’elemento che gli studiosi dell’epoca ritennero valido per identificare la figura in Colombo resta appeso ad un esile elemento: il medaglione sul cappello che ritrarrebbe l’immagine simbolica delle Colonne d’Ercole. Beh, anche con tantissima fantasia ce ne vuole per collegare tutta l’opera a Colombo. Ma tant’è che la filologia di quell’epoca a volte risultava piuttosto grossolana.
Si tratta invece del signore di Fontanellato, una piccola roccaforte vicina a Parma. Si chiamava Gian Galeazzo Sanvitale e, all’epoca del ritratto aveva una più coerente età di vent’otto anni. A quell’epoca, essere signore di un piccolo territorio significava pagare un prezzo al destino molto alto in cambio dei privilegi di nobiltà. Parliamo del periodo delle cosiddette Guerre d’Italia, quelle che devastarono e smembrarono il nostro territorio nazionale, riducendolo a colonia di potentati stranieri. Quindi, ogni piccola contea o signoria diventava un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. Occorreva pertanto allearsi con un potentato, per non essere schiacciati, e conseguentemente rendersi nemico di altri. Accadde anche alla famiglia dei Sanvitale che si alleò con i francesi. Infatti, il cappello che indossa il nostro Gian Galeazzo era considerato “alla francese”, quindi collocato in quest’opera assume un evidente valore simbolico politico.
Il nostro nobile della provincia parmense è seduto su una sedia detta “savonarola” una sorta di sedia curule pieghevole che la tradizione attribuiva alle gerarchie di potere ecclesiastico ma anche un riferimento al potere imperiale della Roma antica. Egli è seduto in una posizione piuttosto innaturale. Il volto è pienamente frontale ma il corpo, sebbene poco visibile dall’abbigliamento così scuro, è torto di quasi novanta gradi. Lo si evince dalla posizione della sedia. Ma questo non toglie nulla all’autorevolezza della figura, tant’è che ciò non si nota e niente viene sottratto al senso di austerità e nobiltà e dalla posa.
Il potere militare di Gian Galeazzo è rappresentato nell’evidenza della bella armatura posta alle sue spalle. La luce piena e intensa si riflette nel metallo dando ad esso un senso materiale di possenza. È chiaramente il frutto di un virtuosismo pittorico raggiunto dall’abilità tecnica del Parmigianino. Questa massa di ferro luminoso rende equilibrata la composizione bilanciandosi con la massa scura dell’abbigliamento.
Il conte sembra essere affacciato a una sorta di balconata che si apre all’esterno dove una ricchissima vegetazione si staglia dalla linea verticale del muro separando l’ambiente dall’esterno. La mia interpretazione è che il potere del signore si esprime sia nell’arte della guerra, con l’armatura sul tavolo, sia nella pace, con questo sguardo alla bellezza della natura all’esterno.
Ritornando al gioco della memoria che citavo all’inizio, penso pochi abbiano memorizzato che il conte regge con la mano destra una moneta d’oro. Ma è normale poiché l’artista stesso sembra aver voluto quasi celarla. Su questa è inciso il numero 72.
Questo ci riporta alla grande passione di Parmigianino per la mistica, l’alchimia e la Cabala intesa come l’arte dell’espressione dei simboli in chiave numerologica. Il settantadue è un numero ermetico che rimanda all’unione alchemica di Giove (7) e della Luna (2); o ancora che il sette è il numero dei metalli e il due dei princìpi costitutivi della materia. In pratica, l’unione cosmica di materia e di spirito, ma anche la coniugazione dei principi opposti che animano l’universo, e ancora, l’unione tra Gian Galeazzo e la sua consorte Paola Gonzaga figlia del signore di Sabbioneta e alleato di quella stessa situazione politica critica che si stava consumando nella nostra Penisola, fra guerre di dominio e invasioni. La moglie di Gian Galeazzo, appunto Paola Gonzaga fu molto amata come modella dal Parmigianino poiché la ritrasse, bellissima, nelle sembianze di Cerere all’interno delle stanza del castello di Fontanellato o ancora nella bellissima figura della Madonna dal collo lungo.
In questa opera di incredibile bellezza Parmigianino ci parla della sua abilità tecnica, della velocità d’esecuzione, del suo tratto fermo e sicuro ma anche delle sue aspirazioni dei desideri della capacità profonda di penetrare i sentimenti e saperli portare vivi nella tela, quasi come fosse capace di animare la materia pittorica sublimandola in immagine viva. Al di là delle sue maniacali passiono esoteriche, che lo porteranno ad una conclusione drammatica della sua vita, Parmigianino ci dice in quest’opera che forse aveva effettivamente la capacità di trasformare la vile materia in spirito, come un grande alchimista: questo gli era di certo possibile attraverso il suo talento e la sua arte meravigliosa.

Francesco Mazzola detto il Parmigianino (1503-1540)
Ritratto di Galeazzo Sanvitale, 1524 – olio su tavola (109x 81 cm)
Museo e Gallerie Nazionali di Capodimonte, Napoli

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