Festa di laurea
di Aldo Borghesi
Quarant’anni ad oggi, mi sono laureato. Nella attuale Aula Motzo della Facoltà di Lettere – allora molto più dark di come poi è diventata, nero e bordeaux come colori dominanti – al tramonto di un giorno soleggiato e ventoso della fine autunno cagliaritana.
Ho un ricordo estremamente confuso dell’avvenimento, io che generalmente ho memoria netta e precisa dei fatti. Gli amici e i colleghi venuti a sentire, persino qualche mia ex alunna del magistrale De Sanctis, la commissione schierata dietro il tavolo; non ricordo cosa ho detto, non ricordo cosa mi hanno chiesto relatore e controrelatore (il prof. Del Piano e l’allora dottor Francesco Atzeni) nè cosa ho risposto; ricordo vagamente una sorta di epinicio nei miei confronti pronunciato dalla indimenticabile professoressa Bianca Crucitti Ullrich, cosa del tutto inusuale per le modalità dell’epoca.
La proclamazione invece la ricordo davvero come fosse ora. La commissione in piedi, il professor Pirodda, presidente e preside di Facoltà, che ricacciando un sorriso a metà fra imbarazzato e compiaciuto annuncia la concessione della dignità di pubblicazione, proseguendo col proclamare qualcosa nel nome del Popolo italiano. Tutto che comincia a girarmi attorno, per fermarsi mentre stringo le mani ai membri della commissione e mi tuffo nell’abbraccio dei colleghi e poi di mio padre, con l’immancabile lama dolorosa del ricordo dell’assenza che avrebbe segnato quello come altri momenti successivi della mia vita.
La laurea è stata uno dei miei (non molti) jours de gloire. Soprattutto è stata il sigillo definitivo dell’amore per lo studio e la ricerca che è poi durato per la vita e spero prosegua fino a che vita ci sarà. Per questo la ricordo e la festeggio ancora, soprattutto negli anniversari tondi, come questo di oggi.
Nel frattempo l’esistenza mi ha fatto lo scherzo di proiettarmi per qualche anno dall’altra parte del tavolo. Prima nella tristezza delle lauree di guerra in tempos de pandemia, poi finalmente nelle aule magne dei Dipartimenti in cui ho lavorato.
Di lauree coma la mia ne ho viste a decine: ho vissuto l’ansia del relatore che porta il o la brava laureando/a ed è preoccupato che le cose vadano come devono in modo che possa avere il punteggio più alto possibile; ho assistito trepidante a discussioni di cui non ho perso una sola sillaba, ho ammirato e mi sono sentito partecipe della concentrazione e dello sforzo che tutte e tutti hanno messo per dare il meglio di sè. Ho condiviso la loro gioia finale forse in modo anche più intenso di quel che avevo fatto quando era stato il mio turno, quasi commovendomi di fronte alla loro commozione (ed ho visto non solo tanti visi arrossire o impallidire, ma tante lacrime represse a fatica e qualcuna anche sgorgare). Ho stretto mani, scambiato baci e abbracci con laureande che fra tacchi, abito d’occasione, corone d’alloro, mazzi di fiori parian santas essidas dae s’artare; presentato calorose congratulazioni a famiglie presenti in tutta la larghezza che può avere una famiglia sarda, nonne nel costume del loro paese, padri che visibilmente avevano tirato fuori dall’armadio l’abito e la cravatta del matrimonio, mamme coi lucciconi, zie zii padrini madrine cugini cugine.
E l’ho fatto con convinzione inversamente proporzionale a quella con cui accoglievo le analoghe congratulazioni in occasione di successi, scolastici e non, dei miei di figli, quando mi chiedevo sì, ma cosa c’entro io? Perchè la laurea è sempre un successo collettivo, di lui o lei che si laurea, certo, ma anche di una compagine familiare / amicale che lo/la ha sostenuta materialmente e moralmente e lo/la festeggia anche perchè spesso è il primo o prima della famiglia. Spesso tutto questo si intravvede tra le righe dei ringraziamenti e della dedica, e ne ho letto veramente di tenerissime e di memorabili.
Oppure è un risultato raggiunto faticosamente, dopo incertezze abbandoni riprese (quanta soddisfazione mi dà il pensare che qualcuna di queste crisi è stata superata anche grazie al mio contributo, alla ferma serenità di relatore che sono riuscito a trasmettere); o una soddisfazione raggiunta tardivamente, dopo altre cose che la vita ha elargito; o che ci si cava dopo un’esistenza passata ad operare in altro settore. Che belle le lauree dove un passo dietro una mamma o un babbo c’è un bambino emozionato e ammirato, come ero io il giorno che, a 37 anni, si è laureato mio padre.
Non mi piacciono gli eccessi nei festeggiamenti, i coriandoli e i cori; ma mi commuove quella corona che mai mi sarei lasciato mettere in testa, mi divertono il papiro e lo scherzoso apparato collaterale, mi piace questo clima di festa di amici e famiglia, io che festa di laurea non ne ho nemmeno fatta perchè due giorni dopo ero a letto con l’influenza e immediatamente dopo sono arrivate le vacanze, e a gennaio ero di nuovo sui banchi per un’effimera quanto piacevole esperienza da studente di Scienze Politiche.
Ancora mi aspettano – per poco – altre tesi, altre lauree, altre proclamazioni, altre studentesse e studenti in abito da cerimonia, altre famiglie da omaggiare, altre casadinas da assaggiare e calici di prosecco da bere (a mezza mattina e a digiuno 🙂 ).
Ai miei e mie laureandi/e, agli studenti e studentesse a cui ho stretto e stringerò la mano mentre emozionati, confusi e felici mi passano davanti, auguro una cosa: che quella freccia che non Eros (il quale per quanto mi riguarda aveva già fatto il suo anni prima) ma Clio mi ha tirato ben diritta quel giorno, rimanga ben piantata nel loro cuore. Anche se l’avrà scoccata non la Musa della Storia ma quella dell’Archeologia, della Filosofia, della Filologia, dei Beni Culturali o della Letteratura.
Che questo amore per la loro disciplina, e per il Sapere, lo passino ai loro allievi, i coraggiosi e le coraggiose che andranno su una cattedra. Che dopo quarant’anni possano ricordare con soddisfazione il giorno in cui ne sono stati trafitti, come si ricorda non tanto un successo, quanto un amore e un connubio contratto per la vita.
